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Il Gorgia di Platone |
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Socrate, senza che Callicle interloquisca più, conclude il suo discorso con un mito dedicato - come il racconto di Er nella Repubblica - all'oltretomba. Anche in questo caso la narrazione sviluppa un suggerimento già accennato nella conclusione dell'Apologia: la rappresentazione del mondo dei morti come luogo di verità, in contrapposizione a quello dei vivi, visto, pitagoricamente, come mondo mortale. Il mito viene presentato da Socrate come qualcosa che può sembrare appunto un mythos - una favola - ma che è un logos con un contenuto vero (523a).
La favola, nella cultura antica, era la forma di comunicazione e di istruzione più elementare. Era, inoltre, la base della religione greca, che era politeistica e civica. In un mondo che non conosceva il diritto d'autore, il mito, continuamente ripetuto e ricostruito da generazioni di narratori e di poeti, era uno straordinario patrimonio collettivo a disposizione di chiunque. Questo patrimonio - si pensi, per esempio, alla storia di Edipo - ispirava una ricchissima varietà di interpretazioni e rielaborazioni, che andavano dalle favole - i racconti che narrano le vecchie in 527a - fino a composizioni di altissimo valore letterario e filosofico come l'Antigone di Sofocle.
Platone, non diversamente da Sofocle, rielabora il mito, inserendovi i suoi contenuti, allo scopo di renderli memorabili. Vestire le idee di una storia serve a farle rimanere in mente al lettore, a cui spetta ricostruire il ragionamento, per riconvertire il mythos in logos. Questa strategia - usare qualcosa di familiare al lettore per fargli accettare una prospettiva del tutto nuova - è perfettamente congruente con la retorica teorizzata nel Fedro.
Come racconta Omero (Iliade, 15.187 ss.), quando Zeus, Poseidone e Plutone, dopo aver deposto il padre Kronos, si divisero il potere fra loro, ereditarono dall'età di Kronos il nomos (523a) secondo il quale gli esseri umani vissuti in modo giusto e pio (hosion) dovevano dimorare nelle Isole dei beati in piena felicità e liberi da ogni male, mentre gli ingiusti dovevano essere inviati all'espiazione nel carcere del Tartaro. Fino ai primi anni del regno di Zeus, il giudizio che sentenziava la ricompensa o il castigo era compiuto da giudici vivi i quali dovevano valutare altri vivi. Ne risultava un'incidenza insopportabile di errori giudiziari che indusse gli amministratori dell'oltretomba a protestare con Zeus (523b).
Zeus si rese conto che gli errori dipendevano dal fatto che si veniva giudicati da vivi e vestiti. Così, chi aveva un'anima malvagia poteva ammantarla di bei corpi, lignaggio e ricchezza, e presentare una serie di testimoni a proprio favore (523c) - esattamente come nei processi ateniesi che Socrate criticava. I giudici, da parte loro, non vedevano chiaramente, perché, oltre ad essere vestiti, avevano l'anima velata dagli occhi, dagli orecchi e da tutto il corpo (523d).
Il corpo con i suoi vestiti rappresenta ciò che ci identifica socialmente e storicamente, sia quando giudichiamo sia quando siamo giudicati, inducendoci a dare per scontati i valori della nostra cultura e le maschere che ci mettono addosso. In questo senso è fattore di pregiudizio: noi non giudichiamo mai "senza guardare in faccia nessuno" perché siamo affetti dal duplice ostacolo della nostra stessa faccia e di quella altrui, così come appaiono socialmente, culturalmente, storicamente. Per ottenere valutazioni che non siano prone al fascino del successo e del potere, occorre eliminare, letteralmente, la faccia. Questa fu la soluzione di Zeus: in primo luogo, la morte divenne un'esperienza indisponibile, non più nota in anticipo. In secondo luogo, si stabilì che gli esseri umani fossero giudicati da morti, spogliati di tutto, da parte di giudici anch'essi nudi e morti, anima di fronte ad anima, senza più nessun velame storico-sociale (523e).
I giudici deputati a questo compito, al trivio che biparte la vie per il Tartaro e per le Isole dei beati, non sono divini, bensì umani, ancorché figli di Zeus e miticamente giusti: Eaco, che giudica le anime provenienti dall'Europa, Radamanto, che giudica le anime provenienti dall'Asia, 105 e Minosse, che prende la decisione finale nei casi dubbi (524a). Il giudizio dei morti è dunque un giudizio puramente umano, che ha a oggetto l'anima e viene compiuto dall'anima. Possiamo valutare noi stessi o ispirandoci, in modo più o meno raffinato, a quello che la nostra società ci ha abituato a dare per scontato, oppure mettendoci l'anima e imparando a ragionare per conto nostro.
I nostri corpi raccontano le nostra storia, perché recano impresse le tracce delle esperienze della vita (524b-c). Analogamente, questo vale anche per l'anima (524d): così, quando arrivano i morti dell'Asia, Radamanto li ferma e vede chiaramente l'anima di ciascuno «senza sapere di chi sia». Spesso le anime del Gran Re o di altri re e potenti sono intaccate e deformate (524e) per la loro exousia (licenziosità), mollezza, hybris e incontinenza (akrateia): 106 il giudice infero allora, senza guardare in faccia nessuno, le spedisce in prigione per il castigo che si meritano (525a).
Il mito indica che, per Platone, l'individualità storico-sociale - il nostro nome e il nostro ruolo nel mondo - è data dal corpo e non dall'anima: Radamanto, guardando l'anima, può capire se si comportata in modo giusto o ingiusto e giudicarla astrattamente secondo regole generali, ma, eliminato il corpo, non può sapere con chi ha a che fare. La psyché platonica è molto diversa da quella cristiana, perché opera come un elemento sovrapersonale che, per quanto possa essere danneggiato dall'uso che ne fa il singolo nel corso della sua esistenza storica, lo trascende infinitamente. Il giudice infero non è interessato a conoscere Temistocle, Pericle o Socrate - corpi irrilevanti ed effimeri - bensì soltanto a stabilire se una coscienza razionale X ha o no svolto correttamente la propria funzione. Valutarsi moralmente significa prendere le distanze dalla propria storia e dai propri interessi e considerare il proprio agire dal punto di vista sovrapersonale di una ragione che non si identifica né con Pericle, né con Temistocle, né con Socrate, ma che vive nello spazio della discussione e della condivisione critica.
Fedone. 64a-69e.
Il mito abbraccia una concezione rieducativa della pena: i castighi si giustificano o perché rendono migliore chi viene punito, oppure perché sono di esempio agli altri. Coloro che hanno commesso colpe curabili traggono vantaggio dalle punizioni di questo mondo e dell'altro (525b). Le colpe incurabili, di contro, meritano castighi eterni ed esemplari (525c).
Il racconto presuppone la teoria della metempsicosi: l'anima è distinta dall'individualità storico-sociale che si identifica col corpo nel quale provvisoriamente abita e può subire, nell'aldilà, punizioni educative perché temporanee, delle quali potrà fare tesoro nell'esistenza successiva, unita a un altro corpo e dunque a un'altra persona. Nella prospettiva dell'intellettualismo etico siamo in grado di migliorare noi stessi e di por rimedio ai nostri errori nella misura in cui abbiamo la capacità di accrescere e fortificare il nostro sapere. Se la causa del male è l'ignoranza, quasi nessun male è senza rimedio. Con una importante - importantissima - eccezione.
Fra coloro che meritano la pena eterna, racconta Socrate, c'è l'Archelao tanto caro a Polo e numerosi altri tiranni, re e potenti, perché a causa della loro exousia - cioè della loro licenza come potere senza limiti - gli è facile a commettere i delitti più orribili (525d). Omero stesso testimonia che a essere condannati a pene eterne sono re e potenti come Tantalo, Sisifo e Tizio, e non i privati - anche se ribelli paradigmaticamente spregevoli come Tersite - i cui delitti sono in ogni caso meno gravi (525e). Socrate nota, trascurando la tradizione che li voleva puniti per la loro hybris contro gli dei, che il castigo eterno dei tiranni è dovuto al loro potere e all'uso ingiusto che ne hanno fatto - dunque in primo luogo al loro comportamento nei confronti degli altri esseri umani.
In un universo mitico in cui la metempsicosi offre a tutti infinite possibilità di correggersi, le anime tiranniche vengono rappresentate come incatenate in eterno al proprio errore. Se accettiamo le premesse dell'intellettualismo etico, essere incapaci di imparare, perché sordi alla confutazione e dominati da una forma di eros, è identico a essere incapaci di bene. Mentre tutti gli altri possono migliorare e crescere, il tiranno resta imprigionato nella monotonia della propria individualità semplicemente perché - fuori dalla metafora mitica - non sa né rendersi conto dei suoi errori né emendare se stesso. In questo senso, è l'opposto del filosofo che dedica la vita alla ricerca della verità e non deve quindi temere il giudizio del tribunale dei morti (526c-d).
Socrate dice di aver fede nel mito (524a), usando il verbo pisteuo, a cui corrisponde il sostantivo pistis: non sta parlando di scienza, ma della fede o persuasione soggettiva prodotta tipicamente dalla retorica. Il suo racconto, nei suoi contenuti storici, è dunque parte di una strategia comunicativa, che - egli riconosce - sarebbe pure da disprezzare se con la ricerca si trovasse «qualcosa di migliore e più vero» (527a). Secondo Socrate, però, neppure «i più sapienti fra i greci contemporanei» - cioè Gorgia, Polo e Callicle - sono stati in grado di confutare i suoi due ragionamenti secondo i quali commettere ingiustizia è peggio che subirla e chi fa del male deve essere punito (527b).
L'esito della fede di Socrate, cioè della sua adesione soggettiva a tesi che ritiene anche razionalmente fondate, è - come nell'Apologia - l'astensione della politica. Infatti, prima di darsi alla politica bisogna praticare la virtù - il che equivale, per l'intellettualismo etico, a perseguire la conoscenza - in modo da «usare la retorica solo e sempre in funzione del giusto» (527c). Sarebbe infatti vergognoso ostentare sicumera «come se fossimo qualcosa», quando invece cambiamo continuamente opinione su tutto a causa della nostra incultura (apaideusia) (527d-e).
Non abbiamo modo di sapere se Socrate, con il mito, sia riuscito a convincere l'anima tirannica di Callicle dove le sue ragioni sono fallite, perché il testo di Platone si conclude col suo racconto. Però, per un lettore immerso, come quello antico, nel mondo della polis, il senso della favola è chiaro: se vogliamo giudicare noi stessi - e anche far politica in modo responsabile, senza diventare giocattoli nelle mani del destino o funzioni dei nostri appetiti - dobbiamo diventar consapevoli che è possibile ragionare da sé e guardare se stessi in un'altra prospettiva, diversa da quella che la società ci ha abituato a dare per scontata. Che la maggioranza non ha necessariamente ragione e che chi si trova in minoranza non ha necessariamente torto. Forse non è possibile, ora, un altro mondo, ma intanto sono possibili altre idee e dunque un'altra vita.
«Recent works on the Gorgias». “Socratic” Dialogues. §5 . Plato. October 2009.
[ 105 ] Per i greci Asia e Europa erano le due parti in cui era diviso il mondo.
[ 106 ] L'akrateia è il contrario della sophrosyne o enkrateia: i vizi delle anime dei potenti corrispondono esattamente a quanto per Callicle era virtù.
Il Gorgia di Platone
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