Tetradrakmaton

Il Cratilo di Platone

Bollettino telematico di filosofia politica
btfp

La lingua come natura (427d-435c)

L'intervento di Cratilo (427d-428d)

Socrate conclude la sua trattazione etimologica: questa è per lui la correttezza dei nomi, a meno che Cratilo non affermi altrimenti (427d). Ermogene, approfittando della presenza di Socrate, tenta di indurre Cratilo a smettere di prenderlo in giro con le sue oscurità e a parlare finalmente chiaro. Gli piace quanto sostiene Socrate sui nomi, o ha qualcosa di meglio da dire? Se ce l'ha, che lo dica, in modo che o Cratilo impari da Socrate, oppure sia lui a istruirli entrambi. Cratilo, però, si schermisce: l'argomento non è facile né da imparare, né da insegnare (427e).

Ermogene non cede: se si aggiunge un poco a un altro poco e lo si fa spesso - canta Esiodo in Le opere e i giorni (361-62) - si ottengono grandi cose. Anche Socrate lo prega, dicendosi disposto a rinunciare alla sua posizione, frutto della sua ricerca estemporanea con Ermogene (428a): non gli dispiacerebbe diventare suo allievo, assieme a Ermogene, a proposito della correttezza dei nomi, su cui Cratilo ha indagato per conto proprio e ha anche imparato da altri (426b).

A differenza di altri interlocutori di Socrate - come per esempio il già menzionato Eutifrone - Cratilo tiene per sé le sue teorie, nascondendole sotto un velo di complessità, tanto che Ermogene riesce a comprendere integralmente la sua battuta sul suo nome solo grazie alla ricerca con Socrate. Il contrasto fra lo stile ieratico, esoterico della filosofia presocratica e quello "urbano" di Socrate emerge qui con chiarezza. Cratilo, affermando che probabilmente è d'accordo con Socrate, cita Omero (Iliade, IX. 644 ss): Socrate ha parlato, nei suoi vaticini, secondo il suo animo, proprio come Aiace nei confronti di Achille (428c).

Nel brano omerico richiamato da Cratilo, Achille loda Aiace perché questi ha capito che la sua astensione dalla guerra di Troia è dovuta a una questione di onore e non di compensazioni. Anche Cratilo, che si paragona implicitamente ad Achille, si è finora astenuto dalla discussione: non perché vuole farsi pagare, come i sofisti, bensì per un motivo legato al modo in cui desidera apparire.

Socrate gli risponde citando ancora Omero (428d). Egli stesso non si fida della propria sapienza oracolare, che potrebbe essere l'inganno peggiore, quello inflitto riflessivamente da sé a se stesso: conviene dunque ritornare su quanto detto e guardare avanti e indietro - come non fa il tracotante Agamennone (Iliade I.343), come fanno invece gli anziani (III.109). In altre parole: se davvero Cratilo è come Achille - che critica Agamennone per la sua scarsa circospezione - non può essere reticente. Anche la reticenza di chi si sottrae alla discussione è una specie di tracotanza.

Un riassunto ipomnematico (428e-429b)

Socrate propone un riassunto ipomnematico delle conclusioni della precedente conversazione, allo scopo di verificare se e quanto Cratilo concordi con loro.

  1. La correttezza di un nome è la sua capacità di mostrare un cosa com'è.

  2. La funzione dei nomi è l'insegnamento.

  3. La denominazione è una techne (428e).

  4. I legislatori o nomothetai sono i tecnici della denominazione.

Socrate vorrebbe concludere che, se la denominazione è oggetto di una tecnica particolare, allora la sua correttezza si potrà giudicare sulla base della sua adeguatezza tecnica: come ci sono pittori e architetti più o meno bravi, così anche i legislatori del linguaggio saranno più o meno abili tecnicamente e sarà anche legittimo giudicare più o meno valide le loro produzioni (429a). Cratilo, però, pur riconoscendo che, in generale, ci siano artigiani più o meno competenti, nega che i nomoi denominanti, e dunque i nomi stessi, possano essere giudicati come migliori o peggiori: tutti i nomi, in quanto sono nomi, sono dati correttamente (429b).

Il paradosso di Cratilo (429b-430a)

Cratilo sostiene che i nomi, se effettivamente svolgono la funzione di denominare, non possono essere sbagliati. Infatti, un nome che non denomina appropriatamente il suo oggetto non è "errato": semplicemente, non è il nome di quell'oggetto. Allora - chiede Socrate - che dire del nome del loro amico Ermogene? Affermeremo, qualora questi non sia stato effettivamente generato da Hermes, che il nome "Ermogene" non gli è neppure stato dato, oppure che gli è stato dato scorrettamente?

Cratilo sceglie la prima opzione: il nome "Ermogene" non è proprio del loro amico, ma di qualcun altro che ne è all'altezza (429c). Questo però, sostiene Socrate, implica che sia impossibile dire che il loro amico è Ermogene quando non lo è - dunque che in generale sia impossibile dire il falso. 18 Cratilo accetta la sua conclusione: se dire il falso è dire le cose che non sono, esso è indicibile. Infatti, ogni volta che si dice qualcosa, si dice qualcosa che è. Se di dice qualcosa che non è, non si dice nulla (429d).

Socrate tenta una distinzione semantica, basata sulla differenza fra il verbo lego e il verbo phemi: si traducono entrambi con "dire", ma il legein implica il raccogliere i propri argomenti per portarli a una conclusione, come al termine di un ragionamento, mentre il phanai riguarda il dichiarare o l'esprimere: «Ti pare che non sia possibile concludere il falso, ma che sia possibile dichiararlo?»

La distinzione avrebbe permesso a Socrate di sostenere la possibilità di espressioni linguistiche false. Cratilo, però, non l'accetta: neanche le mere dichiarazioni possono essere false.

Socrate, allora, tenta un altro esempio: l'atto linguistico con cui ci si rivolge a una persona per salutarla, indicando che l'abbiamo riconosciuta. Che direbbe Cratilo se qualcuno, incontrandolo in una relazione ospitale (xenia), lo appellasse così: «Salve, forestiero ateniese, figlio di Smicrione, Ermogene.»? 19 Ammetterebbe che almeno l'appellativo può essere falso?

Cratilo risponde negativamente: chi gli parlasse così si limiterebbe a emettere suoni (429e) privi di significato, come se battesse un vaso di bronzo (430a).

Primo tentativo di confutazione: legislatori e pittori (430a-432a)

Cratilo sembra unificare il piano ontologico e quello logico - l'essere e ciò che si dice sull'essere. O le parole dicono ciò che è o non dicono assolutamente nulla: un discorso non può essere logicamente dotato di significato ma ontologicamente falso senza smettere di essere discorso. Per sottrarsi al paradosso, Socrate cerca di indurre il suo interlocutore a distinguere l'essere da ciò che, su di esso, si dice: è vero che il nome e l'oggetto che esso nomina sono cose diverse? È vero che i nomi sono imitazioni delle cose (430a), come lo sono - sia pure con delle differenze - le loro raffigurazioni pittoriche? Cratilo glielo concede.

Se è così, prosegue Socrate, allora tanto i nomi quanto le pitture, in quanto imitazioni, possono essere messe in corrispondenza con le cose che imitano. Cratilo gli concede anche questo (430b).

Immaginiamo, dunque, di avere il ritratto di un uomo e quello di una donna: noi possiamo assegnare ciascuna illustrazione o un uomo, o una donna. Le nostre assegnazioni, però, non saranno tutte corrette: si potrà dire corretta solo quella assegnazione del ritratto all'oggetto che gli conviene e gli somiglia di più. Cratilo si dice d'accordo (430c). Ebbene, cerca di concludere Socrate, nel caso dei ritratti questo tipo di attribuzione si chiama corretta; nel caso dei nomi si chiama non solo corretta, ma vera (430d).

Cratilo, però, dubita di questo parallelismo. Socrate cerca di articolare il suo esempio: si ha una assegnazione inesatta - e su questo anche Cratilo è d'accordo - quando io mostro a un uomo - cioè sottopongo al suo senso della vista - un ritratto di una donna, dicendogli che è invece il suo ritratto (430e). Perché, quando l'imitazione è un nome e non un disegno, non dovrei commettere un'analoga scorrettezza se io chiamo - cioè sottopongo al suo senso dell'udito - un uomo "donna", o una donna "uomo"? Cratilo sembra accettare questa analogia (431a).

Se dunque è possibile - tenta nuovamente di concludere Socrate - attribuire scorrettamente i nomi, sarà possibile anche attribuire scorrettamente i verbi e anche interi enunciati, composti di nomi e verbi: in questo consiste la falsità (431b).

Un ritratto è fedele quando il pittore usa colori e forme convenienti; non lo è quando omette o aggiunge qualcosa. Nel primo caso è un buon tecnico, nel secondo cattivo (431c). Analogamente, chi cerca di imitare l'ousia con sillabe e lettere può farlo bene, oppure in modo inappropriato, omettendo o aggiungendo qualcosa.(431d). Come ci sono pittori buoni e cattivi, così ci saranno anche legislatori linguistici più abili o meno abili (431e.

Cratilo, che aveva seguito Socrate fino a questo punto, ne rifiuta però la conclusione: se io aggiungo o tolgo qualcosa a un ritratto ottengo pur sempre un'immagine, ancorché infedele. Se invece aggiungo una lettera o un elemento a una parola non ottengo un nome scorretto, ma qualcosa che non è affatto un nome, o è un'altra parola (432a). 20

I due Cratili (432a-433b)

Cratilo dissente col suo interlocutore perché pensa che solo la somiglianza fra un ritratto e la persona a cui si riferisce abbia un grado: per questo un ritratto non perfettamente identico all'originale può essergli riferito, sia pure come immagine infedele. Invece, secondo lui, l'isomorfismo fra il nome e il suo oggetto non ha un grado: o c'è o non c'è. Per questo è sufficiente una piccolissima alterazione di una parola perché essa non sia più riferibile al suo oggetto, neppure approssimativamente. Questa esattezza - riconosce Socrate - è indispensabile quando abbiamo a che fare con quantità che devono necessariamente essere di un certo numero, o non essere affatto. Se, per esempio, togliamo dal 10 un'unità otteniamo un altro numero, il 9, e non una rappresentazione infedele del 10. 21 Ma questo vale anche per le qualità e le immagini in generale (432b)?

Socrate risponde proponendo un esperimento mentale: se un dio creasse un'immagine di Cratilo senza limitarsi a riprodurne solo la forma e i colori, come un pittore che dipinge un ritratto, bensì facendone una copia esatta in tutte le sue parti - il suo corpo, ma anche il movimento, l'anima e la ragionevolezza - che cosa si otterrebbe? Cratilo e una sua immagine, oppure due Cratili (432c)?

Cratilo è costretto a rispondere che il dio che lo rappresentasse producendo un'altra creatura identica in tutto a lui non creerebbe una sua immagine, ma un secondo Cratilo. La correttezza delle immagini e dei nomi - può ora concludere Socrate - è dunque di un tipo diverso rispetto a quella delle riproduzioni fedeli. Se cioè, diremmo noi, il linguaggio non fosse un sistema simbolico, tutte le cose sarebbero doppie e nessuno riuscirebbe a distinguere la cosa stessa dal suo nome (432d).

Se le parole, come i ritratti, sono approssimazioni e non copie esatte, si può allora sostenere che un nome denomina la cosa su cui insiste ogni volta che, per quanto vagamente, riesce a conservarne lo stampo o typos (432e). 22 E si dovrà anche riconoscere la possibilità di differenti gradi di approssimazione. Cratilo - conclude Socrate - lo deve accettare, a meno che non voglia formulare una teoria della correttezza dei nomi che non si fondi più sull'idea che le parole sono esibizioni delle cose in lettere e sillabe (433b).

Dalla natura alla convenzione (433b-435c)

Ottenuto il consenso di Cratilo, Socrate prosegue con la sua ricapitolazione: una volta ridotti i nomi ai loro elementi, si riconosce che un nome corretto deve essere composto delle lettere più appropriate alla cosa che esso nomina, mentre un nome meno corretto conterrà qualche lettera inappropriata (433c). Infatti, se i nomi sono esibizioni o manifestazioni delle cose, dovremo ammettere, una volta che li abbiamo decomposti in elementi semplici, che questi sono corretti quando sono il più possibile simili agli oggetti che essi mostrano (433d). Socrate aveva discusso di questa somiglianza con Ermogene, quando aveva sottoposto alcune lettere a una analisi fonosemantica.

Socrate però, riproponendo l'analisi a Cratilo, si imbatte in una difficoltà. La illustreremo, per chi non conosce il greco, con un'onomatopea 23 presente nella lingua viva: quella che imita il canto del gallo. In Italia i galli fanno, onomatopeicamente, "chicchirichì"; in Francia, però, fanno cocorico e in Inghilterra addirittura cock-a-doodle-doo: come facciamo a capire che parole così diverse indicano la stessa cosa? Cratilo risponderebbe che in questo caso ci aiuta l'ethos (costume): quando impariamo l'inglese ci viene spiegato che in Inghilterra si usa attribuire al gallo il cock-a-doodle-doo che corrisponde al nostro "chicchirichì". Ma questo ethos differisce davvero dalla convenzione, se per convenzione intendiamo l'associazione di un significato a un termine sulla base del costume di chi parla (434e)? 24

Il riconoscimento del ruolo dell'ethos ci obbliga a concludere - a dispetto della teoria naturalistica del linguaggio anche per Socrate preferibile - che non semplicemente la somiglianza, ma il costume e la convenzione contribuiscono a mostrare il significato di quanto intendiamo dire (435a-b).

Questa conclusione non è un ritorno al punto di partenza, all'arbitrarietà del linguaggio che Socrate aveva desunto dalla tesi di Ermogene, perché la convenzione di cui qui parla è l'ethos: una norma sincronica e diacronica che trascende l'arbitrio individuale perché è condivisa e sostenuta da una collettività.



[ 18 ] È, anche questa, una tesi attribuita da Platone al sofista Protagora (Eutidemo 284a–c, Teeteto 188d–189a, Sofista 236e–237e). Per Aristotele (Metafisica V 1024b 32) una tesi simile era sostenuta anche da Antistene; si veda anche Eleonora Buono, «Praticare la verità. Il cinismo come domanda nel pensiero di Michel Foucault e Carlo Sini» Nóema, 4-2, 2013 doi:10.13130/2239-5474/3769, p. 8. In ogni caso, fra Cratilo e i sofisti sussiste un'importante differenza: mentre il primo, come mostra la sua evoluzione successiva, tende a far collassare il linguaggio nell'essere, i secondi, all'opposto, tendono a far collassare l'essere nel linguaggio.

[ 19 ] L'ordine del testo è stato conservato nella traduzione perché Cratilo, oltre a essere figlio di Smicrione, sarebbe stato effettivamente un forestiero (xenos) ateniese, in una città greca diversa da Atene: l'inesattezza compare in fondo quando l'ospite usa il nome di Ermogene. Il contesto del suo indirizzo ci permette però di evincere che intende rivolgersi proprio a Cratilo, pur col nome sbagliato.

[ 20 ] Se dipingo Socrate come un uomo di alta statura, produco un ritratto infedele di Socrate. Se invece chiamo Socrate "Pericle" o "Qxoroprq" o sto parlando di qualcun altro, o sto emettendo suoni senza senso.

[ 21 ] Secondo Cratilo, in altri termini, il rapporto fra il ritratto e la persona a cui si riferisce è analogico, mentre quello fra il nome e il suo oggetto potrebbe dirsi digitale.

[ 22 ] Proprio questo typos - per esempio - ci permette di renderci conto dell'inesattezza dell'appellativo nel'caso illustrato precedentemente da Socrate.

[ 23 ] Nelle onomatopee, tipicamente, i segni linguistici sono "motivati": per questo si possono usare per l'illustrazione di una discussione ispirata da una visione naturalistica del linguaggio.

[ 24 ] Un italiano che impara l'inglese accetta che i galli anglofoni facciano un verso che gli suona meno pertinente di quello dei galli italofoni - aderendo dunque alla convenzione già in atto fra i madrelingua. L'argomento effettivamente usato da Socrate fa riferimento alla parola greca sklerotes (durezza) che è fonosemanticamente pertinente se intendiamo rho e sigma come associati a movimento e durezza; nella parola greca, tuttavia, è inserita anche una lambda fonosemanticamente connessa alla mollezza: a dispetto di ciò, gli ellenofoni che impiegano questo termine comprendono che di durezza si tratta in virtù dell'ethos.

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