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La Repubblica di Platone |
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Socrate parla molto brevemente anche delle ricompense che il giusto ottiene in vita, ma spiega che solo dopo la morte si ottiene ciò che è più importante con un grande mito conclusivo: il racconto di Er.
Il mito di Er, come il racconto sul giudizio dei morti nel Gorgia, è posto al termine della Repubblica. Questa collocazione gli garantisce, di per sé, un grande risalto: un congedo mitico riesce efficacemente ad accompagnare il lettore fuori dal testo, nel mondo della prassi e della comunicazione orale, con qualcosa che può facilmente ricordare. Nello stesso tempo, questo racconto memorabile è anche un punto di partenza per una riflessione personale: è la conclusione, aperta, di un dialogo filosofico, che serve a ripensare criticamente, all’indietro, i temi già trattati. Il ripensamento richiede un coinvolgimento personale consapevole: un mito inserito in una struttura di ragionamenti è qualcosa di enigmatico, di inconcludente e di indecidibile, che chiama il lettore a far lavorare creativamente il proprio logos.
Socrate sottolinea il carattere quasi filosofico – e non poetico – del mito, quando, presentandolo, precisa che non si tratta di un apologo di Alcinoo (614b), cioè di una storia come quelle narrate da Odisseo, creazione omerica notoriamente mentitrice, al re dei Feaci. Qualcosa di simile Socrate aveva fatto anche a proposito del giudizio dei morti (Gorgia, 523a ss.), quando l’aveva introdotto come un logos con l’apparenza di un mythos.
Tuttavia, fra il racconto di Er e la narrazione del giudizio dei morti esiste una importante differenza, per quanto entrambi siano storie sui morti narrate da un morto: Er è uno che ritorna dall’oltretomba, in modo tale che la sua morte non è una semplice contrapposizione alla vita, ma la possibilità di una nuova vita, diversa e migliore. Socrate è morto, ma il suo pensiero non rivive in un’anti-città, come nel Gorgia, bensì qui e ora, se è possibile continuare a discutere e costruirci vite diverse e forse migliori.
Er è un soldato valoroso, proveniente dalla Panfilia (una regione mediterranea dell’Asia Minore), che, caduto in battaglia, dopo dieci giorni viene ritrovato intatto fra i cadaveri putrefatti. Dopo altri due giorni, messo sul rogo per essere cremato, ritorna in vita, con la memoria del mondo dell’aldilà, e narra qualcosa di simile ad una esperienza di pre-morte, mediata nelle forme della cultura greca.
Una volta uscita dal suo corpo – racconta Er – la sua anima si era messa in cammino con molte altre, finché non era giunta in un luogo divino. Qui c’erano due coppie di voragini contigue, una in cielo e l’altra in terra, e in mezzo sedevano i giudici delle anime. Questi, pronunciato il giudizio, ponevano al collo dei giusti e alle spalle degli ingiusti i segni della sentenza, e ordinavano ai primi di salire a destra e in alto e ai secondi di scendere a sinistra in basso. Quando Er si era presentato, i giudici gli avevano ingiunto di ascoltare e guardare tutto quello che succedeva, per poterlo raccontare (614b-c).
Dalla voragine celeste a sinistra e dalla voragine terrestre a destra uscivano altre anime, le une pure e le altre sporche e impolverate, reduci da un viaggio di mille anni in cielo o sottoterra. Il viaggio sotterraneo era un viaggio di espiazione, nel quale ogni ingiustizia commessa in vita veniva pagata con dolori dieci volte tanti quanti quelli provocati. Con una misura analoga le azioni giuste venivano compensate (614d-615c).
Tutti i castighi sono temporanei, tranne quelli riservati ai tiranni. Er racconta di aver udito un’anima chiedere a un’altra dove fosse il grande Ardieo, che mille anni fa era stato tiranno di una città della Pamfilia. Ardieo – le viene risposto – non è venuto e non tornerà mai più. Quando i tiranni, o qualche privato che si è macchiato di un delitto gravissimo, tentano di uscire dalla bocca della voragine, essa emette un muggito. A questo segnale, i tiranni vengono presi, scorticati e trascinati al Tartaro (615c-616b).
Dopo sette giorni di permanenza in quel luogo, le anime furono fatte camminare per quattro giorni, finché non giunsero in vista di una luce simile all’arcobaleno, che teneva insieme tutta la circonferenza del cielo. Alle estremità è sospeso il fuso di Ananke, la divinità che rappresenta la necessità o il destino ineluttabile, per il quale girano tutte le sfere. Il fusaiolo, che è il contrappeso che mantiene a piombo il fuso, è formato da otto vasi concentrici, messi uno dentro l’altro, e ruotanti in direzioni opposte sull’asse del fuso. Su ogni cerchio sta una Sirena, che emette un’unica nota, e le diverse Sirene tutte insieme producono, ruotando, un’armonia. Gli otto fusaioli rappresentano gli otto cieli concentrici della cosmologia antica, nell’ordine pitagorico: stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Venere, Mercurio, Sole e Luna.
Il fuso gira sulle ginocchia di Ananke. Le tre Moirai, o, latinamente, Parche, siedono in cerchio su tre troni a uguale distanza. Le Moirai – le divinità della moira o destino – sono figlie di Ananke: Cloto, la filatrice, canta il presente, Lachesi, la distributrice, il passato, e Atropo, colei che non può essere dissuasa, l’avvenire (616b ss.)
Appena le anime giunsero in questo luogo, un araldo le mise in fila per presentarle a Lachesi. Quindi, prese dalle ginocchia della Moira delle sorti e dei modelli di vite (bion paradéigmata), annunciò:
Parole della vergine Lachesi, figlia di Ananke: anime, che vivete solo un giorno (ephémeroi) comincia per voi un altro periodo di generazione mortale, portatrice di morte (thanotephòron). Non vi otterrà in sorte un dàimon, ma sarete voi a scegliere il dàimon. E chi viene sorteggiato per primo scelga per primo una vita, cui sarà necessariamente congiunto. La virtù (areté) è senza padrone (adéspoton) e ciascuno ne avrà di più o di meno a seconda che la onori o la spregi. La responsabilità è di chi sceglie; il dio (theos) non è responsabile (617d).
Nella mitologia greca, il dàimon è la creatura divina che presiede alla sorte di ciascuno. Ma in questo racconto, quello che siamo – dichiara l’araldo – dipende essenzialmente dalle scelte che facciamo.
Viene sorteggiato l’ordine della scelta delle anime, e viene loro proposta una grandissima quantità di paradigmi di vita: vite di animali, di uomini, di donne, di tiranni, di successo o fallimentari, di persone oscure o insigni. Ma non c’è una taxis (disposizione, ordine) dell’anima, perché ognuna diventa necessariamente diversa a seconda che scelga l’una o l’altra vita. Saper scegliere una vita giusta e scartarne una ingiusta, commenta Socrate, è importante, per raggiungere la massima eudaimonìa (618e-619a). Anche per chi arriva per ultimo, essendo la rosa dei paradigmi di vita molto ampia, c’è la possibilità di condurre una vita non cattiva, se la scelta viene fatta con senno.
Er racconta anche alcune scelte fatte dalle anime: per esempio, la prima, che era venuta dal cielo, dopo aver praticato la virtù solo per abitudine e senza filosofia in una politeia ordinata, si precipita a scegliere la vita di un tiranno, per accorgersi subito dopo che contiene dolori e sciagure, e prendersela con la sorte. Le anime che venivano dalla terra, invece, facevano scelte più avvedute, perché avevano imparato dall’esperienza.
La selezione dei paradigmi di vita da parte delle anime è uno spettacolo insieme miserevole, ridicolo e meraviglioso. La maggioranza sceglie sulla base delle abitudini della vita precedente: Agamennone, per esempio, sceglie la vita di un’aquila, e Odisseo, stanco di avventure, la vita tranquilla di un privato (620a ss.).
Dopo la scelta, le anime si presentano a Lachesi, dalla quale ciascuna ottiene il dàimon che si è preso, perché gli sia custode e adempia quello che ha scelto. Questo guida l’anima da Cloto, a confermare sotto il giro del fuso il suo destino, e poi da Atropo a renderlo inalterabile, e quindi, dal trono di Ananke, verso la pianura del Lete, afosa e senza alberi. Alla fine della giornata le anime si accampano sulla riva del fiume Amelete (trascuratezza, incuria), la cui acqua non può essere contenuta da nessun vaso.
Tutti – tranne Er – vengono obbligati a bere quell’acqua, che fa dimenticare, e chi non è frenato dalla phrònesis ne beve di più. Poi le anime si addormentano e, a mezzanotte, con un terremoto, vengono lanciate nell’avventura del nascere. Er, che non ha bevuto l’acqua del Lete, si sveglia sulla pira funeraria, con la memoria del suo mito. Memoria che – conclude Socrate – anche noi potremo conservare, se attraverseremo bene il Lete e seguiremo la via ascendente della dikaiosyne (giustizia) e della phrònesis (discernimento), per trovarci bene in questo mondo e nell’altro millenario cammino (620d ss.).
Il mito di Er, come il giudizio dei morti del Gorgia, narra innanzi tutto di un giudizio. Nel Gorgia, questo giudizio è dato una volta per tutte, sebbene soltanto i tiranni siano condannati a pene eterne. Qui, invece, la metempsicosi rende quasi tutte le sentenze temporanee: le anime, dopo mille anni di espiazione o di ricompensa nel mondo ultraterreno, ritornano a vivere e hanno la possibilità di saggiarsi indefinitamente. La posizione e il carattere del mito di Er ci permettono di rifarci ad esso per corroborare la tesi interpretativa secondo la quale, nella Repubblica, la physis di una creatura non è qualcosa di dato in anticipo e una volta per tutte, ma quel che si può osservare dopo averla messa alla prova. E il tempo della prova – racconta Er – dura indefinitamente. Platone, in altre parole, non crede che soggetti liberi possano essere legati ad una identità, cioè a un frammento di informazione che appartiene peculiarmente a un individuo o a un gruppo.
Come nel giudizio dei morti del Gorgia, solo ai tiranni e agli animi tirannici sono riservate punizioni definitive e irreversibili. Solo i tiranni, infatti, bloccano completamente la discussione e l’apprendimento con la loro violenza e la loro sete di potere. Essi, rifiutando di imparare e di confrontarsi con gli altri, sono gli unici che hanno una identità, cristallizzata in una pena eterna – una pena connessa alla monotonia della loro anima. Il principio supremo del reale è, per Platone, il bene come superiore potenzialità: il tiranno, con la sua rigidezza e la sua dipendenza dal potere in atto è il suo esatto opposto. La tirannide, per dirla alla maniera di Gentile, è atto puro, proprio perché esiste solo nella misura in cui il suo potere funziona e agisce. Per questo la punizione che si merita, in un mondo ove tutto il resto è potenziale e sempre in evoluzione, è definitiva. Chi non sa mettersi alla prova, è condannato alla ristrettezza e alla meschinità della propria identità. Il tiranno è un privatizzatore, che non sa nulla in comune con gli altri ed è dunque condannato a sapere soltanto di se stesso.
Le punizioni e le ricompense che vengono assegnate alle altre anime non sono definitive: questo testimonia il loro carattere educativo. La disposizione a imparare è ciò che distingue chi non è tiranno da chi lo è: questa disposizione è connessa ad una interpretazione dell’anima, il sensorio della conoscenza, come qualcosa di interpersonale, non legato a una identità storica individuale.
Un’altra differenza fra il racconto di Er e il giudizio dei morti del Gorgia è il fatto che, mentre il secondo viene narrato come un mito, che rielabora esplicitamente materiali omerici, il primo è riportato come il resoconto dell’esperienza di una singola persona, di quello che ha visto e ricorda. La storia della libertà non è una favola ripetuta dai poeti, ma la il resoconto di un protagonista che ha visto le vicende che narra.
Er, addirittura, è tornato dai morti per riferirci il suo racconto. Questo risveglio può essere interpretato in un più di un senso. Sul piano biografico, Platone, scrivendo i suoi dialoghi, fa letteralmente tornare Socrate dal regno dei morti, per farlo continuare a discutere con noi. Dal punto di vista letterario, un dialogo scritto, se riesce a stimolare il pensiero in prima persona del lettore, è metaforicamente un ritorno dal regno dei morti. Idee nate in un contesto temporalmente e spazialmente delimitato possono ritornare vive nel rapporto con chi legge, e addirittura dire qualcosa di nuovo e di creativo. In questo modo hanno, oltre alla prima, infinite vite successive. Socrate, per così dire, è vivo e parla con noi, o, meglio, leggendo i testi platonici, si fanno rivivere infiniti Socrati, in connessione con ciò che noi pensiamo per conto nostro. In questo modo, Socrate stesso, in quanto diventa uno stile di conoscenza diffuso e propagato al di là della sua individualità storica, diventa qualcosa di più di quello che è stato. La conoscenza non può che guadagnare dalla libertà e dalla diffusione al di là delle individualità e delle identità.
La cosmologia del racconto di Er è arcaica, naturalistica e deterministica: il fuso della necessità è l’asse delle sfere celesti e fila, nello stesso tempo, i destini degli uomini. La necessità del cosmo e quella del mondo umano sembrano, arcaicamente, una sola. Ma Platone, anche qui, mette del vino nuovo in otri vecchi, nel senso che rielabora il materiale del mito per trasmettere, per il suo tramite, idee nuove ed inusitate.
Il dàimon è la creatura divina che presiede al destino di ciascuno. Nel racconto di Er, il dàimon non capita in sorte, ma è oggetto di una scelta 73 . La libertà di scelta rende la virtù “senza padrone”, a differenza di quanto avveniva nella morale tradizionale, ove questa era appannaggio di una figura sociale ben determinata, l’àristos, o comunque di un gruppo estremamente ristretto.
La scelta, e dunque la libertà, è qualcosa di indipendente dalla nostra immagine corporea e sociale: sono offerti alla scelta paradigmi di vita di tutti i tipi, di uomini, donne e perfino animali. La metempsicosi, in Platone, è un elemento assieme liberatorio e responsabilizzante; il caso che determina l’ordine della scelta non è decisivo, perché i paradigmi di vita sono più numerosi delle anime.
Il fatto che questi paradigmi siano dei modelli offerti da Lachesi, la Moira che canta il passato, non incide sulla libertà di scelta. Scegliere, nella prospettiva platonica, significa prendere possesso criticamente del proprio passato per migliorare il presente.
La morte era tradizionalmente un compimento, che dava garanzia di fissità e definitività all’esistenza umana. Per questo si pensava che l’eudaimonìa fosse qualcosa di certo solo una volta terminata felicemente l’esistenza mortale. Nel racconto di Er, invece, la morte è un elemento di indeterminazione, che mette in dubbio la fissità delle immagini sociali del mondo dei vivi. Per la tradizione solo la morte poteva dirci chi era veramente padrone dell’eccellenza e aveva (avuto) un felice rapporto col mondo; 74 per Er, la morte ci dice che la virtù non ha padrone.
Le anime compiono scelte molto differenti fra loro: ciascuna si procaccia la felicità, nel senso moderno di soddisfazione personale, a modo proprio. Ma Socrate sottolinea che il problema capitale è la questione dello scegliere, piuttosto che quella dell’identità e del tipo di soddisfazioni a essa connesse.
La nostra eudaimonìa esiste non tanto perché un buon dàimon presieda al nostro destino, quanto perché noi stessi abbiamo scelto un buon dàimon. Elemento essenziale dell’eudaimonìa, dunque, non è più il dàimon, ma il carattere della nostra scelta. Non ci può essere eudaimonìa senza autonomia. Se lo scegliere è essenziale, la felicità non può essere ridotta a un modello, in base al quale coltivare le persone. Anche per questo, i paradigmi di vita offerti in opzione sono numerosi e differenti fra loro. La scelta fra le varie identità è trattata in modo scherzoso, a differenza dell’atto dello scegliere, che viene preso sul serio. Le teorie dell’identità, per le quali il senso della vita è essere donna, uomo, guerriero o animale, confondono la nobiltà della condizione – la libertà di scelta – con la meschinità del condizionato – il prendere partito per una categoria ed identificarsi con quella -.
Solo la trascuratezza ci fa dimenticare che noi, avendo scelto, siamo liberi, e che possiamo renderci migliori e diversi. La nostra libertà è “mitica”, nel senso che possiamo esserne consapevoli solo ricordando criticamente la nostra storia – come non possono fare i poeti, i quali sono condannati alla ripetizione e all’immersione acritica in un flusso non concettuale, incontenibile e indefinibile, proprio come l’acqua del fiume Amelete.
Se le nostre scelte sono importanti, e se sappiamo tenerlo a mente, ci risulterà chiaro che il mondo può essere migliore di quello che è. Siamo nel mondo di Ananke, ma cambiare è possibile, perché noi stessi possiamo trasformarci e migliorarci.
Il ritorno di Er dal regno dei morti è un’immagine forte dello spirito che ispira la metafisica di Platone: la realtà esiste solo nella misura in cui è viva e in tensione verso il meglio. Noi esistiamo in maniera piena solo se sappiamo fare le nostre scelte – se sappiamo, cioè, valorosamente morire e consapevolmente rinascere, senza dimenticare nulla, come nel racconto straordinario che mette fine alla Repubblica. La virtù, dipendendo da noi, non ha padrone: possiamo essere veramente virtuosi se riusciamo a trascendere la nostra identità, per ricordare le condizioni sovraindividuali della scelta – facendo parte di una comunità di conoscenza che supera il tempo e lo spazio. Se la virtù richiede la conoscenza, come memoria che supera l’individualità, 75 ne segue una conclusione che non può essere dimenticata: la conoscenza non ha né può avere padrone.
La Repubblica 614b-621d.
[ 73 ] Nel 1917 Weber si richiama esplicitamente al racconto di Er, in un passo importante di Der Sinn der ‘Wertfreiheit’ der soziologischen und ökonomischen Wissenschaften (Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftlehre, Tübingen, Mohr, 1982, pp. 507-508; trad. it. di Pietro Rossi, in M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, Einaudi, 1981, pp. 332-33): la scienza empirica non può dare indicazioni immediate sui “valori”, perché valori e sfere di valore stanno fra loro in irrisolvibile antitesi. Per questo: «ogni importante azione singola, ed anzi la vita come un tutto – se essa non deve procedere da sé come un evento naturale, bensì essere condotta consapevolmente – rappresenta una concatenazione di ultime decisioni, mediante cui l’anima (come per Platone) sceglie il suo proprio destino – e cioè il senso del suo agire e del suo essere.» La scienza, afferma Weber nella conferenza del 1919 Wissenschaft als Beruf, insegna soltanto la chiarezza sul rapporto fra mezzi e fini. Non offre garanzie empiriche sui valori. Ma questa stessa chiarezza è detta essere una potenza etica. Una potenza che per lo scienziato di professione può essere scoperta e seguita come «il demone che tiene i fili della sua vita.» Chi sceglie un demone, secondo Weber e secondo Platone, fa una scelta libera, personale e determinante la sua esistenza futura. Ma per Weber questa scelta ha ad oggetto una «potenza etica»; per Platone, un semplice paradigma di vita personale. Per Weber, la chiarezza perseguita dalla scienza – e l’ethos della comunicazione scientifica ad essa connesso – è un demone la cui scelta non può avere una fondazione ultima; per Platone, la luce in fondo alla caverna, per quanto tocchi a noi voltarci e guardarla, deve brillare al di là delle nostre scelte, perché in generale sia possibile una scienza.
[ 75 ] Come nota T.A. Szlezàk, in un articolo nel quale dimostra che la prova dell’immortalità dell’anima del X libro della Repubblica concerne solo la parte razionale («Unsterblichkeit und Trichotomie der Seele im zehnten Buch der Politeia». Phronesis, XXI, 1976, pp. 31-58), le anime del racconto di Er sembrano quasi uomini, ma le loro scelte aneu philosophias - senza filosofia - sono sbagliate solo per difetto di conoscenza, se nelle esistenze precedenti non hanno fatto vita filosofica, e non per la presenza di interessi privatistici in ciò che è immortale e comune.
La Repubblica di Platone
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