Tetradrakmaton

La Repubblica di Platone

Bollettino telematico di filosofia politica
btfp

Il settimo libro: la caverna

Introduzione: il concetto di paideia

In una parola, io dico che tutta la città è la scuola (paideusis) della Grecia e, se ci consideriamo uno per uno, mi sembra che ciascuno, da noi, si presenti autosufficiente, nelle circostanze più varie, con la massima grazia e versatilità. (Tucidide, II.41.1)

Con queste parole, riportate da Tucidide nel logos epitaphios, Pericle esprime un concetto molto importante per la politica della conoscenza: quello di paidéia come cultura ed educazione. La cultura di cui parla Pericle non è solo un dato di fatto antropologico, ma anche e soprattutto l’esito di un progetto comunitario consapevole, che giustifica il primato politico di Atene. Egli, da democratico, crede nella continuità fra collettività e individui: quello che gli Ateniesi sono presi uno per uno, è connesso alla prassi e ai valori della città presa nel suo complesso – una città che decide su se stessa perché governa se stessa.

Il filologo tedesco Werner Jaeger ha sostenuto, negli anni ‘30 del XX secolo, che la nostra storia comincia «con l’affacciarsi dei Greci, in quanto essa oltrepassa i limiti del proprio popolo e ci dobbiamo riconoscere membri d’una più ampia cerchia di popoli. Ebbi perciò già a chiamare tale cerchia l’ellenocentrica». 51 Il carattere di progetto, legato alla volontà e alla ragione consapevole, distingue la paidéia greca della cultura intesa, genericamente, in senso antropologico:

Certo, nel logoro uso verbale odierno, noi siamo soliti applicare il concetto di cultura per lo più non in questo senso, di ideale appartenente alla sola umanità postgreca, ma l’applichiamo, con significato reso assai banale, generalizzando, a tutti i popoli della terra, compresi i primitivi; intendiamo cioè per cultura nient’altro che l’insieme delle manifestazioni e forme di vita caratteristiche di un popolo. La parola cultura è quindi decaduta a concetto antropologico meramente descrittivo; non rappresenta più un altissimo concetto di valore, un ideale consapevole. In questo significato vago e sbiadito, di mera analogia, è allora lecito parlare di una cultura cinese, indiana, babilonese, ebraica ed egiziana, sebbene in nessuna di tali lingue si trovi un vocabolo corrispondente e la consapevolezza del relativo concetto. Nessun popolo d’elevata organizzazione manca, è vero, di un apparato educativo, ma la Legge e i profeti degli Israeliti, il sistema confuciano dei cinesi, il Dharma degl’Indù, nell’essenza loro e in tutta la loro struttura spirituale sono tutt’altra cosa dell’ideale greco della cultura umana. In ultima analisi la consuetudine di parlare di una pluralità di culture pre-elleniche è sorta dal malvezzo del livellamento positivistico, che subordina ogni cosa estranea ai tradizionali concetti europei, senza accorgersi che la falsificazione storica comincia, in fondo, sin dall’inquadramento di un mondo straniero entro il nostro sistema di concetti, non rispondente alla natura di quello. Qui ha la sua radice il circolo vizioso quasi inevitabile d’ogni comprensione storica. Eliminarlo totalmente è impossibile, ché dovremmo perciò cominciare con l’uscir quasi da noi stessi. Ma nelle questioni fondamentali della ripartizione storica del mondo si dovrebbe ad ogni modo poter acquistare chiara coscienza del divario capitale tra il mondo pre-ellenico e quello che coi Greci incomincia, nel quale per la prima volta si costituisce un ideale di cultura quale consapevole principio formativo. 52

L’antropologo culturale Carlo Tullio Altan, nel definire la propria disciplina, critica la posizione di Jaeger:

È interessante notare come Jaeger svaluti il concetto di cultura, quale si venne elaborando in antropologia, [...] notando come esso abbia perduto le sue connotazioni valutative, così da poterlo indiscriminatamente usare per indicare assetti sociali diversi da quello che rappresenta per tradizione il solo vero esempio di cultura. Questo concetto «vago e sbiadito» è in realtà il prodotto di un faticoso processo di liberazione dalla condizione in cui ci siamo storicamente trovati, e che lo stesso Jaeger definisce “ellenocentrica”. 53

Il dissidio fra Jaeger e Altan è dovuto alla circostanza che nello stesso nome convivono due concetti diversi e cioè, da una parte, la cultura come paidéia, cioè come ideale formativo consapevole, che richiede impegno, studio e fatica, perché non dipende dal mero venire ad essere entro una comunità o un popolo, ma da un investimento di ragione e volontà; dall’altra, la cultura in senso antropologico, come «insieme delle manifestazioni e forme caratteristiche di un popolo» che ricade su di noi per il semplice nascere entro una comunità.

Confondere questi due concetti può condurre ad equivoci: è, infatti, equivoco sia voler confutare un progetto di paidéia sulla base della circostanza di fatto che le culture – nel senso antropologico del termine – non lo condividono, sia pretendere di imporre ad altri la propria forma di vita immediata, come se fosse di per sé paidéia.

Il discorso di Pericle, animato com’è da ottimismo democratico, presuppone una armonia fra la cultura nel senso forte, progettuale, e la cultura nel senso debole, antropologico: i singoli sviluppano la loro ragione e volontà in virtù – e non a dispetto – dell’ambiente umano in cui si trovano a nascere. Per questo l’intera città può essere pensata come una istituzione educativa. Ma Platone, che non condivide questo ottimismo, rappresenta, nell’allegoria della caverna, la discontinuità che sussiste fra i due significati. L’individuazione di tale discontinuità permette di mettere in luce con chiarezza il carattere progettuale della paidéia e di interrogarsi sul suo regime, come non è possibile quando la continuità fra l’uno e l’altro senso rende difficile distinguere fra il cascame antropologico e le scelte deliberate.

L'allegoria della caverna

All’inizio del VII libro della Repubblica, Socrate ricorre all’allegoria della caverna per spiegare a Glaucone la differenza fra la paidéia – l’educazione o la cultura – e l’apaideusia. (514a)

Si immaginino – racconta Socrate – degli uomini chiusi fin da bambini in una grande dimora sotterranea, incatenati in modo tale da permettere loro di guardare solo davanti a sé. Dietro di loro brilla, alta e lontana, la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada con un muretto. Su questa strada delle persone trasportano utensili, statue e ogni altro genere di oggetti; alcuni dei trasportatori parlano, altri no. Chi sta nella caverna, non avendo nessun termine di confronto e non potendo voltarsi, crederà che le ombre degli oggetti proiettate sulla parete di fondo siano la realtà (ta onta); e che gli echi delle voci dei trasportatori siano le voci delle ombre (514a ss.).

Per un prigioniero, lo scioglimento e la guarigione dai vincoli e dalla aphrònesis (mancanza di discernimento) sarebbe una esperienza dolorosa e ottenebrante. Il suo sguardo, abituato alle ombre, rimarrebbe abbagliato: se gli si chiedesse – con la tipica domanda socratica – di dire che cosa sono gli oggetti trasportati, non saprebbe rispondere, e continuerebbe a ritenere più chiare e più vere le loro ombre proiettate sulla parete. Per lui sarebbe difficile capire che sta guardando cose che godono di una realtà o verità maggiore (mallon onta) rispetto alle loro proiezioni.

Il dolore aumenterebbe se fosse costretto a guardare direttamente la luce del fuoco. E se fosse trascinato fuori dalla grotta, per la ripida salita, e dovesse affrontare la luce del sole, la sua sofferenza e riluttanza si accrescerebbe ancora. La sua acclimatazione al mondo esterno dovrebbe essere graduale: prima dovrebbe imparare a discernere le ombre, le immagini delle cose riflesse nell’acqua, e poi direttamente gli oggetti. Il cielo e i corpi celesti dovrebbe cominciare a guardarli di notte, e solo in seguito anche di giorno.

Una volta ambientatosi, potrebbe cominciare a ragionare sul mondo esterno, sulla sua struttura, e sul ruolo che ha in esso il sole. Solo allora il prigioniero liberato, ricordandosi dei suoi compagni di prigionia e della loro conoscenza, potrebbe ritenersi felice per il cambiamento. Ma se ritornasse nella caverna, i suoi occhi, abituati alla luce, sarebbero quasi ciechi. I compagni lo deriderebbero, direbbero che si è rovinato la vista, e penserebbero che non vale la pena di uscire dalla caverna. E se qualcuno cercasse di scioglierli e di farli salire in superficie, arriverebbero ad ammazzarlo. Uccidere chi viene dall’esterno è facile, perché, essendo quest’uomo abituato alla gran luce dell’esterno, sarebbe costretto a contendere nei tribunali o altrove sulle ombre del giusto, con persone che la dikaiosyne non l’hanno veduta mai (515c ss).

L’allegoria si può aprire con più di una chiave: essa rappresenta, per esempio, la storia della vita e della morte di Socrate, e illustra perché la filosofia si trovi in contrasto con le città reali. Nel testo, tuttavia, Socrate indica esplicitamente la sua finalità: spiegare che cosa si intende per paidéia – in una maniera tale da rendere impossibile l’equivoco fra la cultura come paidéia e la cultura in senso antropologico.

La condizione dei prigionieri è la condizione di tutti noi, in quanto veniamo ad esistere in uno spazio e in un tempo delimitato e circoscritto, e in una situazione culturale già strutturata secondo modalità e immagini che non abbiamo creato noi. Nessuno nasce fuori dalla caverna: come esseri finiti, veniamo ad essere soltanto nella condizione della storia. La caverna, in questo senso, non è una delimitazione evitabile, imposta dall’arbitrio di qualcuno: la prima “cultura” che necessariamente ci forma è quella in senso antropologico. A questo elemento strutturale, dovuto alla nostra finitezza e storicità, si aggiunge un elemento umano: all’imboccatura della caverna qualcuno proietta ombre e fa risuonare echi, in maniera tanto convincente che i prigionieri, all’interno, li scambiano per la realtà. Non ci viene detto se queste proiezioni siano o no intenzionali e rispondano a un progetto deliberato di manipolazione delle menti tramite il controllo mediatico di ciò che appare come realtà. Ma questo silenzio rende l’allegoria tanto più efficace, in quanto mostra che la limitazione e il controllo dell’accessibilità dell’informazione, in connessione con i vincoli strutturali connessi alla storicità delle creature finite, producono in ogni caso, lo si voglia o no, manipolazione delle menti.

Il mondo chiaroscurale della doxa, cioè dell’apparenza o del sapere di seconda mano, è il mondo in cui ha necessariamente inizio la nostra conoscenza: in questo mondo si nasce, e solo a partire da questo mondo si può cominciare a conoscere. Ma una conoscenza che non mette in questione se stessa, interrogandosi sull’ambiente culturale in cui si forma e sulle modalità e sui limiti dell’accesso all’informazione, è destinata ad rimanere provinciale e manipolabile. Le modalità di conoscenza determinano anche i caratteri della comunità politica: il mondo della caverna è un mondo chiuso e circoscritto, nel quale ha luogo una condizionamento cognitivo tanto più efficace in quanto poco evidente. Le comunità politiche particolari, poiché sono storiche, nascono necessariamente in ambienti particolari e circoscritti. Tuttavia, quello che ci troviamo a sapere per destinazione antropologica e per determinazione mediatica non è identico a quello che possiamo conoscere sulla base di un impegno personale.

Alcuni sostengono – afferma Socrate spiegando la sua allegoria – che nella psyché non c’è scienza (epistéme). Istruire, nella loro prospettiva, significa semplicemente informare, «quasi ponendo la vista in occhi ciechi» (518b-c). Ma il discorso che abbiamo fatto ora, indica che la dynamis o potenzialità di imparare è insita nella psiche di ognuno, e richiede un coinvolgimento personale, perché si tratta di passare dal mondo di ciò che diviene alla visione di ciò che è e della sua parte più fulgida, il bene (518c-d).

L’insegnamento è una techne di conversione, nel senso letterale del termine: non si tratta di dare alle persone informazioni o capacità che non possiedono, ma di indurle a voltarsi dalla parte giusta, in modo da permetter loro di far uso di una facoltà che già hanno. Mentre le altre virtù dell’anima, come quelle del corpo, si acquistano con l’abitudine e l’esercizio, la capacità di discernere è una dote personale che non perde mai la sua virtù, ma per effetto della conversione etica diventa utile oppure nociva (518e-519a). Le virtù etiche possono essere frutto di esercizio, e possono essere prodotti culturalmente condizionati e variabili; la capacità di conoscere, che non può essere infusa dall’esterno, è invece una espressione genuina dell’autonomia delle persone – quella che illumina e rende autentiche le altre virtù, quando sono presenti.

Se la paidéia fosse da intendere come una trasmissione meccanica di nozioni discrete, non sarebbe possibile la liberazione dalla caverna, cioè l’avvio di un percorso di conoscenza critico e autonomo. Se imparare significasse semplicemente acquisire informazioni da una fonte esterna, sarebbe impossibile trascendere ciò che ci è stato fatto sapere. L’informazione sarebbe a buon diritto soggetta a proprietà privata, ma la manipolazione delle menti – deliberata o no – sarebbe totale. Sarebbe infatti impossibile che qualcuno andasse oltre gli echi e le ombre che vengono offerti alla sua percezione, per interrogarsi sulla struttura che ne permette la proiezione: non solo non esisterebbe una filosofia – se per filosofia intendiamo la critica della ragione – ma non ci potrebbe neppure essere una antropologia culturale.

Se invece per paidéia si intende l’esito di un progetto deliberato, al di là della determinazione antropologica, essa si deve basare sul presupposto dell’autonomia della ragione, vale a dire sulla capacità di trascendere criticamente la propria condizione antropologico-culturale. Questa capacità permette anche di valutare l’informazione che si riceve, in relazione al modo in cui viene prodotta – e dunque di sottrarsi alla manipolazione delle menti dovuta, se non alle intenzioni di chi sta all’imbocco della caverna, alla sua stessa struttura. Nell’allegoria non viene spiegato come mai alcuni prigionieri si trovano liberati dai ceppi e cominciano la salita verso il mondo aperto, ma viene chiarito soltanto in che modo la maggioranza è indotta a credere nelle ombre proiettate sulla parete. Il condizionamento e la manipolazione culturale, infatti, possono essere intesi come processi quasi deterministici, soggetti a spiegazione; la risposta alla vocazione a pensare da sé, di contro, non può coerentemente essere spiegata in modo causale.

La cultura come paidéia si fonda sulla libertà della conoscenza, sia in senso soggettivo, sia in senso oggettivo. Liberarsi dalle catene e uscire dalla caverna significa liberarsi anche dall’autorità “di posizione” di coloro che controllano i mezzi di comunicazione, e dunque governano l’informazione ricevuta dai prigionieri. E significa anche, in un senso più profondo, non accettare più che delle condizioni strutturali – trovarsi nel fondo della caverna oppure al suo ingresso – legittimino, implicitamente, delle forme di autorevolezza culturale. Lo stesso Platone che pure ha teorizzato la menzogna fenicia, prende tanto sul serio l’autonomia richiesta della paidéia che si guarda bene dal suggerire al prigioniero liberato di convincere i suoi vecchi compagni mettendosi sulla soglia della caverna a proiettare ombre. L’unica autorevolezza culturale accettabile, in un regime di piena libertà della conoscenza, è quella di chi, in luogo di trasmettere meccanicamente contenuti che sarebbero comunque facilmente reperibili, sa mettersi in gioco alla pari con gli altri e riesce a indicare “da che parte voltarsi”. In una sfera dell’informazione resa complessa dalla mancanza di filtri precostituiti, la capacità di orientare alla ricerca e alla selezione dell’informazione rimarrebbe indispensabile e preziosa.

Bibliografia e URL rilevanti

Platone. La Repubblica 514-519b.



[ 51 ] W. Jaeger, Paideia I, Berlin, De Gruyter, 1954, p. 3; trad. it. di L. Emery e di A. Setti, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p. 4.

[ 52 ] Ibidem, vol. I, pp. 6-7 (trad. it. pp. 7-8).

[ 53 ] C.T. Altan, Manuale di antropologia culturale, Milano, Bompiani, 1971, p. 16.

Creative Commons License

La Repubblica di Platone by Maria Chiara Pievatolo is licensed under a Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International License.
Based on a work at http://btfp.sp.unipi.it/dida/resp