Tetradrakmaton

La Repubblica di Platone

Bollettino telematico di filosofia politica
btfp

Chi sono i filosofi?

La filosofia - spiega Socrate - è una forma di eros, indirizzata alla sapienza (475b). Il filosofo è avido di imparare non alcune cose, ma tutte. Glaucone obietta che questa definizione suona generica: essa, infatti, obbligherebbe ad includere fra filosofi anche i philotheàmones o amanti degli spettacoli, vale a dire il tipico pubblico dei poeti, che si disperde in un flusso multiforme di performances gradevoli. Allora Socrate restringe la definizione, precisando che i filosofi sono philotheàmones della verità (475e).

L’amante degli spettacoli è attirato dalle cose belle, molteplici. Ma per dire che molte cose sono belle, occorre poter predicare di tutte qualcosa che è presente in tutte e non si risolve nel caso singolo: Platone chiama questo qualcosa bellezza o bello in sé (auto to kalon). In questo senso, le cose belle sono dette partecipi (metéchonta) del bello in sé, ma non possono essere identificate con quest’ultimo (476c ss.).

Il rapporto fra le molte cose belle e il bello in sé è un rapporto di méthexis, cioè di partecipazione. Il criterio che funge da confine fra il bello in sé e la molte cose belle si fonda sulla differenza intercorrente fra gli esempi, che possono essere molteplici, e il paradigma di cui questi sono istanze, che deve essere unico (479b). Per esempio: che cosa si intende per “doppio”? Si può presentare un caso particolare: quattro è il doppio di due. Il quattro, tuttavia, non risponde da sé alla nostra domanda: esso, che è doppio di due, può, nello stesso tempo, essere visto non come un doppio, bensì come una metà, in relazione al numero otto. Pertanto, né il quattro, né l’otto, né gli altri infiniti numeri che possano essere visti come doppi di altri, sono il paradigma o il criterio della “doppiezza”, per quanto, di ciascuno, si possa legittimamente dire che è doppio rispetto a qualcun altro. Per spiegare che cos’è il doppio non è sufficiente esibire il quattro o l’otto, ma bisogna chiarire quale sia il rapporto che intercorre fra una cifra A e il suo doppio B. Perché una qualsiasi cifra B possa essere detta il doppio di una cifra A, deve sempre intercorrere, fra loro, un solo e medesimo rapporto. I numeri sono infiniti, ma il rapporto che definisce la “doppiezza” è uno soltanto. Analogamente, ci possono essere infiniti casi di azioni giuste, ma il criterio che definisce la giustizia deve essere uno soltanto. E per spiegare che cos’è la giustizia, devo essere in grado di chiarire questo criterio.

Episteme e doxa

La distinzione fra paradigma ed esempi permette di chiarire anche che cosa differenzia la scienza (epistéme) dall’opinione (doxa). Scienza e opinione – dice Socrate – non sono cose tangibili, bensì forme di dynamis, cioè di facoltà o di potenzialità. Come tali, si definiscono e distinguono solo in relazione al loro oggetto e agli effetti che producono (477c-d). Dunque, epistéme e doxa, se sono distinguibili, lo saranno in quanto potenzialità che si pongono in relazione con elementi differenti. La scienza si pone in relazione con ciò che è – in greco éinai significa sia ‘essere’, sia ‘essere vero’ –, per ricavarne conoscenza (478a).

Se avere un’opinione su qualcosa rappresenta un grado di conoscenza maggiore rispetto a non saperne nulla, ed un grado minore rispetto alla scienza, occorre individuare l’oggetto specifico in relazione al quale si definisce la doxa. Chi conosce per doxa non è disinformato. Ma non ha la capacità di indicare i paradigmi concettuali di quello che sa, proprio perché nella sua mente c’è solo una raccolta di informazioni. Questo genere di descrizione, dice Socrate, si adatta benissimo all’amante degli spettacoli, che colleziona nella sua mente esempi molteplici, e non si vale di definizioni unitarie. Proprio perché si vale di esempi affastellati senza interrogarsi sulla loro formula comune, la sua conoscenza sarà sempre ambivalente e sfumata – proprio come ambivalente, poco rigorosa, contraddittoria, è la conoscenza poetica.

Il mondo della doxa è abitato da un fruitore passivo, smarrito nella molteplicità delle informazioni che gli sono trasmesse, perché non sa o non vuole fare lo sforzo di costruirsi un filo conduttore concettuale che dia un senso al tutto. L’epistéme, di contro, richiede l’impegno e l’interesse a capire ciò che ci viene trasmesso e a metterlo consapevolmente in parole proprie, a trovarne e criticarne le formule e i nessi.

La filosofia come potere di indirizzo politico

Le conseguenze di questa teoria sul regime della conoscenza sono chiare: per conoscere veramente qualcosa, non basta tenere in mano il particolare, con l’informazione che esso include, ma devo esibirne il paradigma. Il particolare è un caso unico, discreto, assimilabile a un singolo oggetto fisico; il paradigma funziona come tale solo se viene partecipato alle singole istanze – funziona, cioè, solo col presupposto della condivisione e della partecipazione. Un simile presupposto è da intendersi in senso logico, oggettivo: il paradigma è tale se e solo se è condiviso da una pluralità di casi. Esso, tuttavia, può essere inteso anche in senso soggettivo: l’amante degli spettacoli può fruire della performance particolare come di una prestazione discreta e indipendente; di contro, chi cerca paradigmi deve parteciparli a una pluralità di casi e deve farli valere nei confronti di una pluralità di persone. Quello che vedo io ora può essere bello per me, e, se fruisco privatamente della mia esperienza, me ne posso accontentare; ma non posso privatizzare il paradigma del bello definendolo come ciò che vedo io ora. Devo riuscire a spiegare in che senso le singole cose belle che altri stanno vedendo, ora o in un altro tempo, possono essere dette belle in maniera tale che questo valga per me come per loro. L’esperienza della singola cosa bella è soltanto mia; ma il bello, per non valere solo in questo caso e per me, deve essere nostro – cioè non solo mio, ma di chiunque altro ne sappia e voglia parlare con me. Per questo, tutto ciò che può essere controllato privatamente, in via esclusiva, non può essere un paradigma. La conoscenza è partecipazione, oggettivamente e soggettivamente.

L’unità del paradigma sembra un criterio vuoto – Socrate non definisce mai il bello in sé – ma, sul piano procedurale, pone dei vincoli forti, dal momento che obbliga sia alla coerenza interiore, sia, esteriormente, alla necessità di misurarsi con tutti i modelli concorrenti, entro un dibattito che è uno. Non posso cambiare idea a seconda del pubblico e della città, perché i paradigmi funzionano come tali solo nella misura in cui non sono (soltanto) miei. Questa prospettiva spiega anche perché Platone assegna ai filosofi il potere di indirizzo politico: essi sono gli unici in grado di esibire dei criteri unitari, sempre validi, e dunque genuinamente pubblici e non privati. L’unità del paradigma – a prescindere dal suo contenuto – è essenziale perché si possa avere un dibattito scientifico, un indirizzo politico ed una unità politica qualsivoglia, e non semplicemente una giustapposizione di prospettive private.

Bibliografia e URL rilevanti

Platone. La Repubblica 474c-480.

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