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La Repubblica di Platone |
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- Abbiamo per la città un male più grande di ciò che la dilacera e la fa molte anziché una? O un bene maggiore di quello che la leghi insieme e la faccia una? -
- Non l’abbiamo. -
-Dunque, non lega assieme la comunione del piacere e del dolore, quando tutti i cittadini, al massimo possibile, godano e soffrano similmente, allorché delle stesse cose vengano ad essere o cessino di esistere? –
- Assolutamente. -
- Mentre non è dilacerante la privatizzazione (idìosis), quando alcuni sono molto afflitti e altri sono molto contenti per i medesimi eventi accaduti alla città e a chi si trova in essa? -
- Come no? -
- E deriva appunto da questo, quando essi non pronunciano insieme nella città parole come “mio” e “non mio”, e lo stesso per ciò che è altrui? -
- Esattamente. -
- Quindi è governata nel modo migliore quella città in cui i più dicono “mio” e “non mio” sulla stessa cosa nello stesso modo? -
- Certissimo. -
- E non è quella che si approssima a una persona sola? Così quando è colpito un dito di uno di noi, tutta la comunione estesa, a proposito del corpo, all’anima, per il coordinamento (syntaxis) unitario di ciò che in essa governa, se ne risente, e tutta intera condivide insieme la sofferenza della parte che si travaglia, e così diciamo che alla persona fa male un dito? E il medesimo discorso non vale per ogni altro elemento del corpo umano, quando una parte si travaglia nel dolore o si allevia nel piacere? - (462a ss.)
Il comunismo platonico va oltre la condivisione della conoscenza, perché deve tenere sotto controllo, a causa della scelta di controllare politicamente il codice della vita, un fattore di privatizzazione potente come la necessità erotica (458d). Il Socrate del V libro sostiene che la città deve avvicinarsi a un uomo solo: i piaceri e i dolori di ciascuno devono essere sentiti come i piaceri e i dolori di tutti. Il suo termine di confronto è Trasimaco, che, contrapponendo il tiranno a coloro che si fanno assoggettare dalla giustizia da lui imposta, trattava i piaceri e i dolori come non trasferibili: io sottometto gli altri per il mio piacere, e non mi importa nulla della loro sofferenza. Trasimaco, così ragionando, era coerente: la separatezza delle persone comporta che ciascuno possa trascurare gli altri, perché avverte solo il suo personale piacere e dolore, a meno che non trovi – o imponga loro – un qualche interesse in comune. Per evitare questa logica, Socrate sostiene che la giustizia per il singolo ha lo stesso significato della giustizia per la città: io posso agire autonomamente e responsabilmente solo se mi impegno nella costruzione di un progetto politico di convivenza con gli altri, e mi prendo sulle spalle anche il loro dolore e la loro gioia. Io sono un soggetto morale autonomo solo in quanto mi costruisco come tale in relazione con me stesso e con gli altri secondo un medesimo principio. La mia autonomia è anche l’autonomia degli altri, anzi, può essere autonomia secondo una legge solo se riesco a trasferirla da me agli altri.
Da questo ragionamento, che impone l’uso di un unico principio di giustizia per la città e per il singolo, segue, ancora una volta, l’incoerenza della tesi platonica a favore della legittimità della menzogna politica, che siamo abituati ad associare all’olismo e che è riproposta nel V libro. Infatti, in Resp. 459c-d, si ripete che la menzogna è un farmaco – una medicina o un veleno – e, come tale, va usata, sia pure con attenzione, allo scopo di piegare l’eros alle esigenze di una eugenetica pianificata politicamente. Ma un singolo uomo che mentisse a se stesso sarebbe una persona che si illude o si inganna, e non potrebbe essere giusto: la giustizia, come governo della parte razionale della singola anima, comporta un autocontrollo consapevole, che in questo caso sarebbe inficiato da deficienze cognitive, pigrizia intellettuale e morale, o nevrosi vere e proprie. Pertanto, se davvero, come dice Platone, la città si deve approssimare a una persona sola, la menzogna non può essere legittima neppure sul piano politico: se la polis vuole essere giusta, la conoscenza dovrebbe essere distribuita nella città in maniera trasparente, così come è, giocoforza, trasparente a se stesso il singolo che si autogoverna. Ingannare un solo cittadino è come ingannare se stessi. E l’inganno teorizzato nel V libro è qualcosa di più dell’opacità connessa al recepimento disuguale della conoscenza, perché comporta una manipolazione deliberata di sentimenti e desideri altrui.
Stando così le cose, sembrerebbe facile concludere che il progetto platonico è tanto totalitario quanto incoerente. Totalitario, perché sottopone i comportamenti e i sentimenti privati agli stessi principi di quelli pubblici, in modo tale da abolire ogni spazio personale riservato al singolo; incoerente, perché giustifica, a livello collettivo, l’uso della menzogna per fini di politica eugenetica, pur essendo questa proibita dalla similitudine fra la città che governa se stessa e la singola persona nella sua autonomia, per la quale sarebbe impossibile accettare consapevolmente il falso. Ma queste due accuse non possono essere sostenute insieme: se vogliamo far cadere in contraddizione il Socrate del V libro, dobbiamo concedergli il principio che i comportamenti pubblici e i comportamenti privati, le azioni verso gli altri e le azioni verso se stessi, vanno giudicati secondo un medesimo metro. Se, infatti, si distingue il pubblico dal privato, e se stessi dagli altri, diventa anche possibile sostenere che pubblico e privato seguano morali diverse, e reciprocamente indipendenti. Questo potrebbe aprire la strada sia all’idea che la ragion di stato sia differente e superiore rispetto alla morale individuale, sia, viceversa al pensiero che, sul modello del mito di Gige, i singoli siano legittimati a fare, di nascosto, delle eccezioni, ogni volta che capita loro l’occasione, all’etica e al diritto comuni a tutti.
In 462a ss. viene disegnata una condizione di perfetta comunione, coordinazione e trasparenza, in virtù della quale l’intero risente immediatamente, senza bisogno di miti e di menzogne, di ciò che avviene ad ogni sua parte. Ma la scelta di politicizzare l’eros richiede la menzogna. Platone sta ragionando come se fosse convinto che l’eros, in quanto tale, sia radicalmente privato e non possa essere direttamente collettivizzato. Oggi siamo obbligati ad affrontare la questione del codice della vita come una questione o di condivisione o di privatizzazione della conoscenza, perché, essendo il funzionamento del codice della vita noto e, almeno in parte, tecnicamente riproducibile in laboratorio, non lo possiamo più trattare solo come materia di affetti privati. Platone non aveva la possibilità di ridurre il codice della vita a conoscenza, se non attraverso il controllo dell’eros procreativo: questo lo condanna ad una grave – e manifesta – contraddizione rispetto al suo stesso ethos della trasparenza, coessenziale alla sfera cognitiva.
La Repubblica 462a-469b.
La Repubblica di Platone
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