Tetradrakmaton

La Repubblica di Platone

Bollettino telematico di filosofia politica
btfp

Alla ricerca della giustizia

La fondazione della città nel discorso non ha però ancora detto nulla su dove possano essere la giustizia e l'ingiustizia, su quale differenza intercorra fra loro, e su quale delle due debba possedere chi voglia essere felice, di nascosto o no dagli dei e dagli uomini. Socrate fa questa osservazione rivolgendosi a Glaucone con l'appellativo «figlio di Aristone» 31 - un appellativo che si sarebbe potuto usare per Platone stesso - e parlando della città così costruita come della sua polis. Glaucone replica osservando che Socrate stesso aveva promesso di impegnarsi in quest'indagine, e non può tirarsi indietro (427d).

«La nostra città» – prosegue Socrate – «se è stata correttamente fondata, è completamente buona» (428e). Essendo tale, avrà le virtù della sapienza, del coraggio, della capacità di autocontrollo o sophrosyne, e, finalmente, della giustizia. 32

La sapienza

La prima dote di una città buona è la sophia o sapienza, cioè la conoscenza rigorosa o scienza (epistéme). Esistono molte forme di epistéme: per esempio la falegnameria, la metallurgia e l’agronomia, che hanno ad oggetto cose particolari nella città. La sapienza della città non consisterà in queste, pur importanti, discipline, bensì nella scienza con la quale la polis si consiglia su se stessa, nella sua interezza, e sul suo modo di comportarsi con se stessa e con altre città. Questa scienza è posseduta solo da una minoranza di cittadini, quelli che governano, e si chiama phylakiké (scienza della custodia). (428d) Una città fondata kata physin sarebbe sapiente nel suo complesso in virtù di questa minoranza, destinata a rimanere tale, perché la sophia è rara e poco diffusa (429a).

Com’è possibile che una sola parte della città renda sapiente il tutto? Socrate, rispondendo alla domanda di Adimanto sulla felicità dei custodi, aveva osservato che la felicità di alcuni singoli non implica la felicità dell’intero, che richiede una esplicita costituzione di uno spazio pubblico sovraordinato alle persone singole e ai loro interessi particolari. Perché, invece, la sapienza di alcuni dovrebbe comportare la sapienza dell’intero?

La felicità, come realizzazione personale, non è in grado, di per sé, di distribuirsi agli altri. Il fatto che qualcuno sia specializzato nel perseguire con successo il proprio interesse non produce, di per sé, felicità per gli altri. Nella polis trasimachea, il più forte impone il proprio utile, costringendo alla propria giustizia. La sophia, in quanto disciplina scientifica, si distribuisce all’esterno attraverso una sua propria forma di intersoggettività: come ha mostrato la confutazione di Trasimaco, perfino chi vuole occuparsi, scientificamente, di misthotiké deve sottoporsi all’intersoggettività e alla pubblicità della scienza. Tuttavia, rimane da spiegare in che modo l’intersoggettività propria della scienza e della comunità scientifica possa riverberarsi sulla comunità politica, che è, per definizione, più ampia e solo in minima parte scientifica.

Il coraggio

La seconda virtù della città è l’andréia o coraggio. Anche in questo caso, il coraggio è offerto, alla città come intero, da una sua parte: quella investita della funzione di combattere a sua difesa. Questa parte della polis ha la dynamis, cioè la capacità o potenzialità, di salvaguardare in se stessa la doxa o opinione sulle cose da considerare temibili, in modo tale che essa continui a concordare con ciò che le era stato inculcato tramite l’educazione. Questa doxa può corrompersi, o, come dice Socrate, può stingersi, se viene a contatto con i detersivi delle passioni (429b ss.).

Le virtù della sapienza e del coraggio sono di carattere dichiaratamente parziale. Entrambe consistono nello sviluppo eccellente di una attitudine particolare in due gruppi ristretti di cittadini. Per questo, a proposito di entrambe, potremmo chiederci che cosa mai garantisca che queste due virtù parziali si ripercuotano sulla città nel suo complesso, rendendola, nella sua interezza, sapiente e coraggiosa.

La sophrosyne

Per rispondere a questa domanda, occorre una terza virtù, la sophrosyne, che riguarda non tanto lo sviluppo eccellente di una parte determinata, bensì la relazione fra le parti. Socrate la definisce come una sorta di consonanza (symphonia) e di armonia, che porta con sé la capacità di controllare i piaceri e gli appetiti.

L’autocontrollo è una virtù, perché l’uomo ha in sé una parte migliore e una peggiore. La parte peggiore predomina in chi non ha sophrosyne, a causa di una cattiva educazione o della sua vita di relazione. Anche questa capacità, nel mondo reale, è la dote di una minoranza: la maggioranza degli uomini liberi, dei fanciulli, delle donne e degli schiavi ne è priva (431a ss.). Una simile caratterizzazione della sophrosyne, che si applica indifferentemente all’anima e alla città, introduce esplicitamente la pluralità e la divisibilità anche all’interno del singolo. Per questo motivo, quando interpretiamo Platone, non è appropriato chiamare il singolo essere umano “in-dividuo” o, alla greca, “a-tomo”. Il singolo, infatti, non è inteso come un ente indivisibile, bensì come un complesso composto da parti, che possono reciprocamente essere in un rapporto armonico o disarmonico.

La sophrosyne, a differenza della sapienza e del coraggio, deve essere una virtù di tutti i cittadini, cioè di tutta (hole) la polis. Come la sophrosyne del singolo è l’autocontrollo consistente nella prevalenza della parte migliore dell’anima e nella propensione a obbedire della peggiore, così la sophrosyne politica è la homònoia, cioè la concordia di tutti i cittadini su chi ha titolo a governare. Questa virtù rende la città priva di conflitti per il potere. Essendo la sophrosyne una virtù di relazione, che lega l’autocontrollo individuale al rispetto di limiti esterni, una città può essere temperata, cioè padrona di se stessa, solo se tutti sanno moderare le proprie pretese. Di contro, quando manca la capacità di autocontrollo, è possibile sia manipolare gli altri agendo sulle loro passioni, sia tracimare nello spazio altrui a causa della propria avidità. Questo rende la città internamente conflittuale.

La giustizia

Sapienza, coraggio e sophrosyne contengono l’elemento cognitivo: la sapienza lo contiene in via immediata; il coraggio – come capacità di mantenere la retta opinione – e la sophrosyne – come capacità di riconoscere i limiti propri e altrui – lo contengono in via mediata. Se il rapporto con l’elemento cognitivo è decisivo anche nella definizione del coraggio e della sophrosyne, allora il problema della distribuzione della conoscenza da una parte al tutto si pone, direttamente, per la sophia, e anche, indirettamente, per le altre due virtù. Com’è possibile che la conoscenza si riverberi da una parte al tutto?

La risposta è data dalla areté che viene definita per ultima: le virtù delle parti possono diventare virtù del tutto solo se sono sottoposte a un principio, la giustizia, che le induca a cooperare in un compito comune. Socrate osserva che, a ben guardare, di giustizia si è già parlato, quando si è detto che ciascuno deve svolgere, nella polis, una sola attività, quella per la quale la physis – cioè la sua cultura e la sua storia – l’ha plasmato; e che ciascuno deve fare ciò che gli è proprio senza polypragmonéin, cioè senza occuparsi di molte cose; accusa, questa, tipicamente riservata all’educazione poetica.

In termini politici, la conseguenze di questa definizione della giustizia è una rigorosa divisione tecnica del lavoro. Ciascun gruppo sociale deve svolgere il proprio compito e non deve fare quello degli altri. Un uomo d’affari – per esempio – non può pretendere di governare: il suo interesse particolare, indispensabile e legittimo nella vita economica, asservirebbe la comunità tutta intera a esigenze soltanto economiche, e dunque private, se fosse trasferito all’ambito politico o scientifico (432e ss.). La giustizia, in altri parole, è quel principio per il quale le parti della città, svolgendo il ruolo che si addice a ciascuna, cooperano fra loro e fanno riverberare le loro virtù particolari sull’intero; è inoltre il principio che fissa i confini di quella essenziale virtù “di relazione” che è la sophrosyne. Una polis giusta non si regge su una armonia organica, ma su una divisione del lavoro la cui realizzazione è una costruzione e un compito morale. L’equazione socratica fra virtù e conoscenza viene articolata con un principio di coordinazione: la giustizia diventa la virtù che assegna alla conoscenza quel ruolo dominante che contraddistingue la città virtuosa. Ma perché le ragioni della conoscenza abbiano un ruolo dominante, esse non devono sottostare né alla logica competitiva, propria dei guerrieri, né alla logica economica, propria della terza classe.

... il fare ciò che è proprio (oikeiopragìa) della classe degli affaristi (chrematistikòu), degli ausiliari e dei custodi, occupandosi ciascuno del proprio nella città, non sarebbe viceversa giustizia e non renderebbe giusta la città? (434c)

Socrate dice (432d-e) che, in effetti, hanno sempre avuto avuto tra le mani quello che andavano cercando: infatti, la città è stata costruita sulla base dell’ipotesi della divisione tecnica del lavoro. Se vale questa ipotesi, la giustizia non può che essere il criterio che assegna a ciascuno il suo ruolo. La città è stata costruita per rispondere a tutti i bisogni; la divisione tecnica del lavoro è stata introdotta allo scopo di soddisfare i bisogni di tutti nel modo più efficiente. Sulla base di questo presupposto, si può stabilire anche una gerarchia fra le diverse funzioni: se è vero che nessuno desidera essere indottrinato, dare il primato alla conoscenza e al suo interesse non economico e non competitivo è una garanzia di autonomia e di trasparenza della scelte di indirizzo politico, rispetto al rischio – grave ai tempi di Platone come ora - del conflitto di interessi in chi governa e della conseguente manipolazione dei governati, da parte del più forte, per il proprio utile.

Se nella polis un gruppo di cittadini fosse giusto per motivi esclusivamente esteriori – per evitare danni o per ottenere vantaggi –, l’intero progetto politico platonico sarebbe messo a repentaglio. La giustizia viene perseguita per motivi unicamente esteriori soltanto se essa è separata, oggettivamente o soggettivamente, dal suo nesso con la conoscenza. Non è casuale, dunque, che conformismo e ipocrisia si manifestino variamente nelle costituzioni deteriori di cui trattano i libri VIII e IX. Ma anche nella città costruita dal discorso è prevista la menzogna, al suo momento fondativo, tramite il racconto fenicio, e nel V libro, in relazione al problema del controllo governativo dell’eros. Questi due momenti sono due momenti di esplicita tensione, perché sono il sintomo che, in questi due casi, nell’ambito politico, la ragione pratica non riesce ad agire su tutti in maniera trasparente.

Bibliografia e URL rilevanti

Platone. La Repubblica 427d-434d.



[ 31 ] La città che Socrate, stimolato da Glaucone, è andato costruendo, è la città «del figlio di Aristone», e non la sua. Ma Platone non avrebbe mai edificato questa città se Socrate non avesse posto, per primo, il problema della definizione razionale della giustizia. Lo scambio di battute fra Socrate e Glaucone può alludere a un rapporto di continuità creativa di Platone con il pensiero del suo maestro.

[ 32 ] In questo testo, Platone codifica quelle che la tradizione occidentale, anche nella sua versione cristiana (tramite la mediazione offerta dal De officiis di Cicerone all'omonimo testo di Sant'Ambrogio), riconobbe come le quattro virtù cardinali che definiscono l'eccellenza umana: sophia/phronesis, dikaiosyne, andreia, sophrosyne, cioè sapientia/prudentia, iustitia, fortitudo, temperantia. L'uso alterno di sapientia (teoretica) e prudentia (pratica) è ciceroniano, per quanto nella definizione esplicita della sapientia di De officiis, I, 153 essa sia rigorosamente distinta dalla prudentia.

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