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La Repubblica di Platone |
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All’inizio del IV libro, dopo che Socrate, per evitare, in chi governa, il rischio del conflitto di interessi, ha precluso ai custodi la famiglia e la proprietà privata, Adimanto propone una obiezione. Per quanto si possa dire che la città sia in verità loro, i guardiani non ricavano nessun beneficio dalla loro carica. La loro eudaimonìa – il loro successo e la loro soddisfazione personale – è trattata da Socrate come una questione trascurabile: di fatto, l’educazione, la socializzazione e l’organizzazione economica della loro vita rendono loro impossibile perseguire interessi personali connessi alla proprietà, alla libertà di movimento e al tipo di relazioni con gli altri ad esse connesso (419a ss.).
Socrate risponde ad Adimanto osservando che non ci sarebbe da meravigliarsi se questi uomini fossero, anche così, molto felici (420b). La polis non è fondata perché un solo ethnos (gruppo, classe) in particolare sia felice, ma perché lo sia la città tutta intera (hole).
... plasmiamo [la polis] felice non prendendo da parte pochi [singoli] in essa e facendoli tali [lett. “ponendoli come tali”], ma tutta intera (holen) (420c).
Se ci si preoccupasse solo del benessere di alcune persone, nessuno farebbe più il suo lavoro e la polis verrebbe distrutta. Questo vale soprattutto per quanto concerne i custodi, perché è da loro che dipende la buona amministrazione e la felicità della città. La scelta se rendere felici solo alcuni, o la polis come un holon, è dunque una questione decisiva (421a-c). E se la felicità o il buon funzionamento della polis come intero è lo scopo prioritario, allora ciascuno deve svolgere il proprio compito e partecipare della felicità nella misura in cui glielo concede la natura. 28
I cittadini della città costruita da Socrate non hanno la facoltà di farsi un’idea propria della loro felicità, perché la loro educazione ha un carattere esplicitamente manipolatorio. Che valore ha la felicità degli individui in rapporto al corretto funzionamento dell’intero? La soluzione di Socrate nel IV libro della Repubblica potrebbe, a buon diritto, apparire totalitaria. Occorre, tuttavia, considerare i termini della contrapposizione usata da Platone: in Resp. 420c non si oppone l’individuo alla città, bensì la città ad alcuni singoli.
Il Socrate del IV libro della Repubblica non liquida il problema della felicità dei singoli come malposto o intellettualistico o atomistico. Se raffrontato a un pensatore consapevolmente ed esplicitamente totalitario, il filosofo del fascismo Giovanni Gentile, Platone sembra comportarsi in maniera differente. Per quanto presenti la questione in termini poco consueti all’uso moderno, il suo Socrate accetta di rispondere alla domanda sui singoli, a differenza di quanto fa Gentile, che elimina la questione sul piano logico-metafisico: l’«individuo atomo sociale è una semplice fictio imaginationis». 29
Un lettore moderno si aspetterebbe che la questione del rapporto fra felicità individuale e collettiva venisse affrontata come un problema di priorità logica e di gerarchia assiologica: qual è la corretta relazione fra gli individui e il complesso, o l’intero, di cui fanno parte? Viene prima l’individuo o la collettività? Questa impostazione produce una nota alternativa fra due tipi di legittimazione della società civile:
la legittimazione fondata sul primato logico e assiologico dell’individuo: in questa prospettiva, le strutture collettive possono essere giustificate esclusivamente sulla base dell’interesse e del diritto individuale. Una collettività è legittima solo se rende possibile – o, per lo meno, rispetta – la felicità degli individui;
la legittimazione fondata sul primato della collettività: l’interesse e il diritto dell’individuo è giustificato solo se avvantaggia – o, per lo meno, rispetta – gli interessi del collettivo o dell’intero.
Il IV libro della Repubblica affronta la questione valendosi di due termini antagonisti diversi. Da una parte si pone l’intero, così come è stato costruito nel discorso; dall’altra, non si pone l’individuo in quanto tale, ma alcuni singoli, nella loro concretezza. Socrate non parla mai dell’individuo nella sua astrattezza; egli fa soltanto menzione di una serie di casi particolari: phylakes, vasai, agricoltori, calzolai (420e-421a).
La polis come intero è frutto di una costruzione del discorso. Che cosa autorizza a trattare persone diverse – custodi, vasai, agricoltori e calzolai – come se fossero degli atomi fra loro indifferenziati, così da applicar loro un medesimo modello di felicità “individuale”? Perché possa proporsi il problema del rapporto fra l’intero e la felicità dei singoli, i singoli devono avere una dimensione loro propria. Ma questo comporta che la felicità di ciascuno sia diversa da quella di ogni altro: se non fosse così, infatti, la peculiarità di ciascun individuo verrebbe costretta entro un modello atomico, uguale per tutti e non differenziabile. Gli atomi, infatti, come ha mostrato Stenzel, possono essere pensati come il prodotto della moltiplicazione dell’Uno di Parmenide: piccoli interi indifferenziati e uguali a se stessi. 30
Platone non ragiona in questi termini: egli riconosce la diversità e la varietà dei singoli. Questo lo conduce a contrapporre al buon funzionamento dell’intero, la polis che nasce da un progetto discorsivo, non un solo paradigma di benessere – il benessere dell’“individuo”- bensì una pluralità di paradigmi possibili. Non esiste, per lui, la felicità dell’individuo in quanto tale: esistono, piuttosto, le diverse felicità ed i diversi interessi di vasai, custodi, agricoltori e calzolai.
Chi dispone di un modello di “individuo”, in quanto paradigma atomico indifferenziato sotto cui ridurre tutti i singoli, può applicarlo alle comunità politiche o, in alternativa, agli esseri umani. Nel primo caso, la comunità politica sarà trattata come l’intero nel quale si risolvono i singoli; nel secondo, essa sarà vista come un aggregato di atomi, cioè di una molteplicità coordinata di interi. Platone non si vale di un modello di individuo entro cui ridurre tutti i singoli: per questo motivo, egli non oppone l’interesse della collettività all’interesse dell’individuo in generale, inteso come intero logicamente e metafisicamente concorrente, bensì contrappone l’interesse pubblico, così come l’ha costruito, alla variegata pluralità degli interessi particolari di alcuni.
Totalitario, in astratto, è chi afferma la supremazia logica, metafisica e assiologica di un intero politico, nel quale si risolve ogni diversità. Il totalitarismo, inteso in questo senso, riduce drasticamente lo spazio della libertà etica e politica: l’interesse dell’intero è l’unico interesse ad essere riconosciuto come valido, assiologicamente, e come reale, metafisicamente. Al lettore novecentesco è familiare un caso particolare di totalitarismo: quello fondato sull’identificazione dello stato con l’intero, che sacrifica e risolve nella totalità statuale ogni altra particolarità. Ma come considerare chi applica a tutti i singoli esseri umani un unico paradigma atomico, e, conseguentemente, un unico modello di felicità? Questa persona negherà che la comunità politica sia un intero, e la giustificherà solo come aggregazione di individui, sulla base di un interesse attribuito, indifferentemente, a tutti loro. Egli sosterrà, inoltre, che ogni singolo è un individuo o atomo, cioè un intero; e, se vorrà usare l’interesse del singolo come legittimazione dell’aggregazione politica, dovrà assumere che ogni singolo può essere ridotto sotto un unico modello. Hobbes, per esempio, allo scopo di legittimare la sua concezione della società civile, deve ridurre i singoli sotto un unico modello, che certamente non rende giustizia a tutti: quello dell’individuo dominato interamente dalla paura della morte violenta. C’è una felicità che vale per tutti, se non per il tutto: vivere senza il timore di essere uccisi.
Se per totalitarismo si intende l’affermazione logica, metafisica e assiologica di un intero, che funga da unica base di giustificazione politica e nel quale si risolva ogni diversità, allora ragiona in modo totalitario sia chi prende le mosse dalla collettività come holon, sia chi prende le mosse dall’individuo come atomo. In entrambi i casi, tutti sono ridotti sotto un unico modello e un’unica felicità. In entrambi i casi, lo spazio della libertà etica e politica è drasticamente ridotto, perché è già stabilito in anticipo che cosa l’intero, grande o piccolo, singolare o plurale che sia, sa e vuole; in entrambi i casi, inoltre, il totalitario sosterrà di avere a cuore l’unica autentica libertà, che sarà, a seconda delle sue preferenze metafisiche, o quella che si predica della società politica o quella che si predica dell’individuo, cioè, indifferentemente, di tutti i singoli, ricondotti sotto un unico modello.
Quando Trasimaco presenta l’ingiustizia come una virtù e cerca di argomentarne la validità intersoggettiva, senza riuscirci, perché, come mostra la confutazione di Socrate, l’ingiustizia, a differenza della scienza, non offre dei criteri di discussione comuni a tutti, ragiona col presupposto di un modello di individuo dominato dalla volontà di potenza, valido per tutti. Ma quando riduce ogni forma di giustizia, cioè ogni forma di interesse pubblico, all’interesse di alcune persone, le più forti, egli presenta a Socrate una sfida più radicale: che cosa ci assicura che il nostro paradigma di giustizia non sia, semplicemente, la maschera dell’interesse di alcuni singoli? Con una pari radicalità ragiona anche il Socrate del IV libro: egli non assume i differenti interessi di singoli particolari, diversi fra loro, come se fossero interessi dell’individuo in quanto tale, ma li tratta, semplicemente, come interessi di alcuni.
La distinzione fra interesse della polis come intero, interesse dell’individuo come, a sua volta, atomo o intero, e interessi di alcuni singoli, permette di chiarire il senso della risposta di Socrate all’osservazione di Adimanto. In primo luogo, viene messa in dubbio l’immagine della felicità presupposta da Adimanto, che si identifica, come per Trasimaco, con la soddisfazione della volontà di potenza individuale: i guardiani potrebbero godere di una loro felicità, diversa da quella data per scontata da aristocratici e sofisti. Che cosa ci autorizza a credere che tutti i singoli ricadano sotto un unico modello di individuo? Che cosa ci autorizza a credere che, per i singoli, la felicità non sia variegata quanto sono variegate le creature, ma si riduca alla soddisfazione della volontà di potenza? Dal punto di vista metafisico, ridurre tutti i singoli sotto un unico modello di individuo e, conseguentemente, sotto un’unica felicità, appare tanto dogmatico quanto ridurre tutti i singoli sotto un unico intero statale.
In secondo luogo, prosegue Socrate, nessun progetto politico potrebbe assumere gli interessi di alcuni individui particolari in luogo dell’interesse pubblico, senza privatizzare, di conseguenza, la comunità politica nel suo complesso. La città costruita nel discorso è stata giustificata sulla base della necessità di soddisfare, tramite la cooperazione, i vari bisogni dei singoli. Proprio perché i bisogni di tutti i singoli siano soddisfatti, l’istituzione intera, nel suo complesso, deve funzionare “felicemente” o correttamente. Ma questo non può avvenire, se la società politica è privatizzata e asservita all’interesse di qualcuno in particolare.
In altri termini, l’argomento di Socrate non mira a sostenere la tesi metafisica secondo la quale l’individuo si risolve nell’unico vero intero della polis, bensì una tesi molto più semplice, e politica: nessuna polis può funzionare, se non è pubblicamente costituita, ma è posta al servizio degli interessi di alcuni singoli o gruppi particolari. Un politico o un funzionario pubblico degno di questo nome non può usare la sua carica per perseguire il suo interesse personale, o gli interessi di altri singoli particolari, siano essi vasai, agricoltori e calzolai, come nel mondo di Platone, oppure finanzieri e imprenditori, come nel mondo di oggi.
Se questa interpretazione è corretta, l’argomento di Socrate non è, di per sé, totalitario, se non dal punto di vista di chi disconosce ogni senso della pubblicità e considera accettabili solo le strutture politiche che riesce ad asservire ai propri interessi privati. Non possiamo, tuttavia, negare che esso abbia delle potenzialità totalitarie se non è preso isolatamente, ma è considerato in combinato disposto con elementi politici ulteriori: la pretesa di una comunità totale di dimensioni statali, la quale non distingua fra etica, diritto, politica, religione e cultura e che ricorra, indifferentemente, a mezzi di coercizione, alla manipolazione dell’educazione, all’assoggettamento dei media e a varie forme di censura e di persuasione occulta.
Socrate prescrive poi alla città alcuni accorgimenti ulteriori, i quali indicano che la comunità etico-politica cui sta pensando Platone sia molto lontana da uno stato moderno, e si identifichi piuttosto con l'ideale della polis antica in quanto comunità totale:
la città non deve essere né ricca né povera, perché ricchezza e povertà sono fattori politicamente e moralmente destabilizzanti, a causa della conflittualità derivante dalla disuguaglianza economica, che, per Platone, fa di una città due città contrapposte, una di poveri e l’altra di ricchi (422e-423a).
deve essere di dimensioni territoriali contenute (423b-c), in modo che possa conservare la volontà di rimanere una
deve essere fondata sull'educazione piuttosto che sull'ingegneria legislativa (423e-427c), anche nell'ambito della famiglia, in modo che matrimonio e procreazione siano comuni come cose di amici (424a)
La Repubblica 419a-427c.
[ 28 ] Qui, naturalmente, physis assume il significato, platonico. di ciò che il singolo è diventato sulla base dello sviluppo delle sue attitudini entro un progetto politico di educazione.
[ 29 ] G. Gentile, Genesi e struttura della società, Firenze, Sansoni, 1975, p. 14.
[ 30 ] J. Stenzel, Plato der Erzieher, Leipzig, F. Meiner, 1928; trad. it di F. Gabrielli, Platone educatore, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 21-88. Per Parmenide, solo l’Uno è, il suo essere equivale al pensiero, tutto il resto è apparenza, doxa, e quindi non è. L’uno è una sfera che abbraccia tutto, che costituisce il limite del mondo e racchiude in sé ogni essere pensabile. L’idea dell’infinito è per Parmenide, come per tutti i greci, qualcosa di insoddisfacente e di indefinito: occorre una meta (telos) e un limite (peras), altrimenti il mondo sarebbe informe e incomprensibile. Occorre trovare la conclusione formatrice del mondo, che nasce solo dal pensiero. A questo scopo, Parmenide sacrifica la struttura del mondo, che viene detta irrazionale e illusoria, perché introdurrebbe molteplicità e indefinitezza; razionale è solo l’unità e totalità del mondo: il puro essere è indivisibile. Ma lo stesso ragionamento è applicato da Leucippo e Democrito all’infinitamente piccolo: la divisione ha fine con un indivisibile concettuale, l’atomo o individuo, cioè quello che non si può più tagliare o dividere. La differenza fra Parmenide e Democrito sta solo nelle dimensioni e nel carattere di singolarità o pluralità dell’unità essenziale indivisibile.
La Repubblica di Platone
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