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La Repubblica di Platone |
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Socrate accetta la sfida di Glaucone e Adimanto, e cerca di dimostrare perché la giustizia è, in se stessa, un bene. L'ipotesi contrattualistica trattava la giustizia come una funzione delle organizzazioni politiche, che gli individui accettano convenzionalmente per evitare mali peggiori. La giustizia contrattuale, in altri termini, è un modus vivendi e non una virtù personale: i singoli, se ne avessero la forza, preferirebbero dominare sugli altri, anziché sottoporsi a regole comuni. L'argomentazione di Socrate prende le mosse da un celebre paragone, il quale, a prima vista, sembra dare per assunto ciò che si dovrebbe dimostrare, e cioè che la giustizia non è solo una virtù esteriore delle organizzazioni collettive, ma anche una virtù interiore degli individui:
- La ricerca a cui mettiamo mano non è poca cosa, ma, a quanto pare a me, da persone di vista acuta. Poiché noi non ne siamo dotati, direi di fare una tale ricerca come se qualcuno ordinasse a gente di vista niente affatto acuta di riconoscere lettere piccole da lontano, e poi uno considerasse che quelle stesse lettere sono anche da qualche altra parte, più grandi e su una superficie maggiore, e allora, penso, esaminare le più piccole, se per caso sono le stesse, avendo prima letto le più grandi sembrerebbe un dono di dio (hérmaion).
[...] La giustizia, diciamo, è di un uomo solo (andròs enòs) e da qualche parte anche della città intera (holes poleos)? -
- Certo. -
- Allora, la città non è più grande di un uomo solo? -
- Più grande –, disse.
- Allora forse ci sarà una giustizia più ampia nell’ambito più grande, e più facile ad apprendersi. Se dunque volete, cercheremo prima che cos’è la giustizia nelle città, e poi la esamineremo anche in ciascun singolo, considerando la somiglianza del più grande nell’aspetto (idea) del più piccolo. – (368d-369a)
Secondo Mario Vegetti, la similitudine fra giustizia e scrittura e fra uomo e polis contenuta nel II libro della Repubblica sembra introdurre tre assunzioni non motivate: 17
la giustizia è un testo, cioè un insieme articolato e ordinato di elementi semplici, che si dispongono a indicare un significato costante;
il testo grande (politico) ha la stessa forma di quello piccolo;
la giustizia su scala politica si legge più facilmente di quella su scala individuale.
La definizione di giustizia più lontana da quella che Socrate va cercando è quella di Trasimaco. Egli sostiene che la giustizia ha un senso esclusivamente politico e opera sui singoli soltanto tramite la forza e l’inganno; la società della sorveglianza e della sopraffazione è la sola società praticabile. Ma, perfino in questo caso, la giustizia può essere paragonata a un testo: il “giusto” ha un significato costante, perché si riduce all’utile di qualcuno, identico a me, se sono in una posizione di potere, o, altrimenti, diverso. La giustizia, in quanto oggetto di teoria, pretende, a torto o a ragione, di essere una funzione d'ordine con un significato condiviso. Pertanto, perfino in questo caso, è possibile immaginarla come un testo: un insieme di segni forse ingannevole, ma accessibile all’interpretazione di tutti coloro che hanno appreso la convenzione dell’alfabeto,
Secondo Socrate, se affermiamo che la giustizia (dikaiosyne) può essere sia di un singolo uomo, sia della polis intera, allora sarà più facile vedere la giustizia nell’elemento più grande e poi applicarla al minore. Ma il fatto che sull’uomo e sulla città sia scritto lo stesso testo è soltanto un hérmaion, o, letteralmente, un dono di Hermes, messaggero degli dei e ambigua divinità dei ladri, degli espedienti, dei sogni e dei discorsi abili. Platone ha usato un “trucco”, dando per scontato - già a partire dal primo libro - quello che avrebbe dovuto dimostrare?
L'ipotesi contrattualistica di Glaucone, per la quale la giustizia è solo una funzione sociale, assume gli individui e le loro tendenze come un dato originario. Dà cioè per scontato che gli individui siano atomi, indivisibili, dalla cui composizione risulta la società. Platone, chiaramente, non condivide questa posizione individualistica. Una consolidata tradizione interpretativa novecentesca connette la filosofia platonica al cosiddetto olismo.
L’olismo politico è quella prospettiva teorica che tratta la comunità politica come se fosse un intero (holon), e gli individui che la compongono come sue parti. Come le cellule hanno senso e funzionalità solo entro l’organismo di cui fanno parte, così i cittadini hanno senso e valore esclusivamente in quanto parti dello stato, cioè dell’intero o del tutto che li ricomprende. Il “tutto” è legittimato a valersi di logiche che gli individui che ne fanno parte possono non capire, o trovare immorali, o subire come distruttive.
Olismo e individualismo possono essere parte di posizioni metafisiche quando si pensa che l’intero, o l’individuo, siano la realtà, cioè che sia reale, per usare una metafora hegeliana, la foresta e non i singoli alberi, com’è per gli olisti; oppure siano reali i singoli alberi ma non la foresta, com’è per gli individualisti. Ma se si è consapevoli del carattere funzionale e non metafisico-sostanziale dei nostri strumenti logici, olismo e individualismo possono convivere. Per esempio, possiamo considerare la foresta come un tutto quando ci occupiamo della sua influenza sul clima globale, oppure il singolo albero, nella sua individualità, quando ci chiediamo come farlo crescere dritto.
Platone, nel I e nel II libro della Repubblica, ragiona come un olista, quando fa dire a Socrate che il medesimo schema della giustizia può essere applicato sia al singolo, sia alle comunità? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo chiederci se l’olismo metafisico usi, nel trattare il tutto e le sue parti, una o due logiche. Se, cioè, l’olismo legittimi l’applicazione al tutto e alle parti di un solo imperativo, oppure se ne richieda due, uno per gli individui in quanto parti del tutto, e uno per il tutto in quanto intero.
Per esempio, in merito al problema della giustizia, un olista potrebbe dire che per gli individui il giusto è comportarsi funzionalmente alla sopravvivenza della comunità (salus rei publicae suprema lex), e non alla loro, mentre per il tutto, in quanto individualità sostanziale, è giusto mirare esclusivamente alla sopravvivenza. Ma questo modo di ragionare, a ben guardare, comporta due imperativi, e non uno: quello del sacrificio per gli individui, e quello “egoistico” per il tutto.
Di contro, l’uso di un solo imperativo per il “tutto” e le “parti” non comporta necessariamente, sul piano pratico, una prospettiva olistica, perché gli individui possono reclamare l’attuazione per ciascuno di loro, se l’imperativo è uno, degli stessi valori cui si ispira il tutto: ad esempio, se la libertà è un principio di riferimento, allora deve poterlo essere non solo per la città, ma anche per me come individuo. Inoltre, in questo modo di ragionare, non si richiede che la totalità o l’individuo abbiano una realtà metafisicamente autonoma: posso applicare a me e allo stato gli stessi criteri organizzativi perché la mia e la sua unità sono qualcosa che assumo in funzione degli strumenti che uso, e non posso dire che siano “tutto” o “parte” ontologicamente, cioè per il loro essere intrinseco. Platone stesso, del resto, nelle puntualizzazioni logiche del IV libro, afferma che una stessa cosa può essere vista senza contraddizione sia come un intero, sia come una collezione di parti, a seconda della prospettiva che scegliamo di assumere.
Se la giustizia è pensata come un testo, allora può essere concepita come una funzione indipendente dal dispositivo su cui viene scritta. Questa funzione coordina fra loro una collettività di parti, che possono essere sia i cittadini di una città, sia le componenti di un'anima. L'ipotesi contrattualistica considerava le deliberazioni politiche come una scelta e le preferenze individuali come dei fatti; l'ipotesi platonica cerca di spiegare anche le preferenze individuali come esito di deliberazioni interiori risultanti dal gioco di più componenti.
La Repubblica 368a-369c.
[ 17 ] M. Vegetti, Grammata in Platone, La Repubblica, Napoli, Bibliopolis, 1998, vol. II, pp. 281-284.
La Repubblica di Platone
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