Tetradrakmaton

La Repubblica di Platone

Bollettino telematico di filosofia politica
btfp

La definizione di Polemarco: dall'etica tradizionale alla tirannide (331d-336a)

La sapienza dei poeti

A Cefalo subentra, come suo erede anche nella discussione, il figlio Polemarco. il quale si appoggia ad una autorità della cultura tradizionale, il poeta Simonide, per definire la giustizia (dikaion) come ridare a ciascuno quello che gli è dovuto (opheilòmena). Per parare l'obiezione che Socrate aveva fatto al padre, il figlio chiarisce la definizione per mezzo di un'altra massima tradizionale: giustizia è ridare a ciascuno il dovuto nel senso di fare del bene agli amici e del male ai nemici (332a ss.). Non è dunque giusto rendere il coltello a un amico impazzito, se ciò lo danneggia.

Socrate precisa che allora con "dovuto" (opheilòmenon) si deve intendere prosékon: in altre parole, dal punto di vista della giustizia, ciò che è dovuto non è propriamente ciò di cui siamo debitori, ma ciò che spetta o si addice a ciascuno.

La giustizia come techne (332c-334e)

Socrate, sulla base di questa definizione, applica alla giustizia la struttura di una techne. Una techne come la medicina, per esempio, dà a ciascuno ciò che gli si addice nel senso che prescrive ai corpi farmaci e diete quando sono malati. Che cosa dà la giustizia, e quando serve?

Se la giustizia fosse la techne di fare del bene agli amici e del male ai nemici, essa sarebbe utile solo in guerra, visto che per tutte le altre necessità - per esempio la salute o la navigazione - esistono arti specifiche (332c).

Polemarco aggiunge che essa serve anche in pace, nei contratti commerciali e nelle altre imprese comuni: ma anche iu questo caso, quando essi riguardano prestazioni particolari, sono più utili le competenze specifiche. Alla fine, una persona giusta si riduce a una persona cui si può affidare denaro per conservarlo. Ma, se di tecnica si tratta, un abile custode (phylax) sarà anche un esperto nell'arte del furto, proprio come un medico, come tale, ha sia le competenze per guarire, sia quelle per avvelenare (333a-334a).

Pare dunque che la giustizia, per te, per Omero o per Simonide sia qualcosa di ladresco, a vantaggio però degli amici e a danno dei nemici (334b).

Socrate guida quindi Polemarco a chiarire che cosa si intenda per amico, in modo tale che la giustizia non si riduca a fare del bene a chi viene percepito come amico e del male a che viene percepito come nemico, cioè del bene e del male a chi ci pare. Giustizia, dunque, è l'arte di fare del bene all'amico che è giusto e del male al nemico che è ingiusto (335a-b).

Che cosa significa "danneggiare"? (335a-336a)

Una volta riconosciuto che l'uomo giusto danneggerà l'ingiusto, Socrate induce Polemarco ad ammettere che danneggiare una creatura significa renderla peggiore, ossia lederla nel tipo di areté, cioè di eccellenza o funzione esercitata al meglio, che gli è propria. Per esempio, danneggiare un cavallo significa azzopparlo. Questo discorso vale anche per l'uomo? Ossia: l'uomo danneggiato è leso nella areté che è propria degli uomini?

Ora, la giustizia è virtù umana. 8 Pertanto, se danneggiare significa ledere una creatura nella virtù che gli è propria, danneggiare un uomo significa renderlo ingiusto. La giustizia, se dobbiamo intenderla come arte di danneggiare i nemici e di far del bene agli amici, è dunque la techne di rendere ingiusti gli uomini. Questa definizione, però, si addice di più all'ingiustizia che alla giustizia: come l'equitazione è una techne che comporta il rendere gli uomini abili cavalieri, così la giustizia dovrebbe saper rendere gli uomini giusti, e non ingiusti. Non si rendono gli uomini giusti facendo loro del male (335e).

La tesi che la giustizia non abbia nulla a che vedere col danneggiare nemici, anche ingiusti, è tipicamente socratica: si ritrova, ad esempio, nel Gorgia. E' una tesi che mette Socrate in contrasto con tutta la morale tradizionale. Tanto è vero che, osserva Socrate ironicamente, la massima che identifica la giustizia con il fare del bene agli amici e del male ai nemici non deve essere attribuita a Simonide o Biante o altri saggi della tradizione, ma a tiranni come Perdicca o Serse, o a «qualche altro riccone convinto di avere un grande potere» (336a). In un ambiente etico competitivo - la guerra o il mercato - non c'è giustizia, perché la "giustizia" della guerra e del mercato non ha a che vedere con l'effetto delle proprie azioni sugli altri, ma solo con l'efficacia delle proprie azioni rispetto ai propri interessi. Per questo, il fare del bene agli amici e del male ai nemici può essere solo la giustizia degli imprenditori e dei tiranni, perché riguarda esclusivamente chi agisce e i suoi interessi, e non invece il rapporto con chi subisce l'azione. Non regola le relazioni fra gli uomini, ma solo le relazioni fra un uomo (potente), i suoi interessi e le sue azioni.

La morale tradizionale ha esiti tirannici, sia nell'ambito della polis, sia in quello dell'oikos. Socrate, significativamente, sottopone allo stesso criterio di giudizio sia il potere politico, sia il potere economico: la discussione con Polemarco, il quale pensava alla giustizia degli uomini d'affari - l'unica di cui aveva esperienza - viene sviluppata in modo da produrre una valutazione morale che coinvolge sia l'ambito pubblico, sia quello privato.

Bibliografia e URL rilevanti

Platone. La Repubblica 331d-336a .

Francesca Di Donato. I Greci fra oralità e scrittura.



[ 8 ] Questa asserzione presuppone che l'uomo sia, come avrebbe detto Aristotele, uno zoon politikon, cioè un essere sociale. Platone applicherà questo carattere sociale anche in interiore homine.

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