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19-05-2023
Queste pagine sperimentano una lettura ipertestuale di un testo tanto ricco quanto tormentato per renderlo accessibile agli studenti e restituirlo all'uso pubblico della ragione. L'originale tedesco di riferimento è quello dell'Akademieausgabe disponibile su korpora.org. Come versione italiana di riferimento è stata adottata la migliore attualmente disponibile, quella di Giuseppe Landolfi Petrone in I. Kant, Metafisica dei costumi, Bompiani, 2006, pp. 17-359. Purtroppo la traduzione è sotto copyright e non può essere liberamente rielaborata: le osservazioni su di essa, che altrimenti avrebbero potuto essere intese come contributi per migliorarla, suoneranno - indipendentemente dalla volontà di chi scrive - come critiche nei confronti del traduttore.
L'opera è ancora in corso di elaborazione: chiunque ne faccia uso tenga conto che sarà soggetta a revisioni e ampliamenti.
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La prima parte della prefazione anticipa quale sia la posizione della metafisica dei costumi nel sistema della conoscenza filosofica: essa segue alla critica della ragion pratica, proprio come i fondamenti metafisici della scienza della natura seguono alla critica della ragion pura.
Per Kant, infatti, ogni metafisica ha preliminarmente bisogno di una critica che vagli, in ambito teoretico, le possibilità e i limiti della nostra conoscenza, e, in ambito pratico, le possibilità e i limiti della nostra azione. Rispetto alla tradizione della metafisica, l'innovazione maggiore è la critica, che richiede un radicale cambiamento del nostro punto di vista chiamato dal filosofo "rivoluzione copernicana". Una volta compiuta la critica si potrà ricostruire una metafisica finalmente legittima, che avrà come oggetto la natura quando si occuperà dei princípi che strutturano la nostra conoscenza dell'essere, e i costumi quando tratterà i princípi dell'azione di esseri razionali liberi.
La metafisica dei costumi, a sua volta, si divide in due parti, in conformità alla partizione kantiana della morale in diritto ed etica:
fondamenti metafisici della dottrina del diritto;
fondamenti metafisici della dottrina della virtù.
Il diritto è per Kant un concetto puro, cioè indipendente dall'esperienza, perché costruito dalla ragione nella sua autonomia. In quanto tale, però, va applicato alla prassi umana e dovrebbe contenere una casistica empirica che, proprio perché i suoi contenuti vengono dall'esperienza, non può essere esaurita. Per questo motivo, la prima parte della Metafisica dei costumi non si chiama "metafisica del diritto" bensì "fondamenti metafisici della dottrina del diritto". Gli esempi casistici, perché siano chiaramente distinti dalla parte a priori, sono presentati in note apposte al testo principale.
Kant è consapevole che il suo modo di scrivere suona oscuro, o addirittura - accusa, questa, frequente contro i trattati di filosofia - volutamente incomprensibile allo scopo di dare un'impressione di profondità. Per sottrarsi a questa accusa si impegna ad attenersi alle indicazioni di Christian Garve, ma con un limite importante e insuperabile.
Garve era un esponente della Popularphilosophie, per la quale ogni dottrina filosofica doveva essere ricondotta alla popolarità, vale a dire a una resa sensibile sufficiente per la comunicazione generale [einer zur allgemeinen Mittheilung hinreichenden Versinnlichung]. Però - obietta Kant- la critica alla facoltà della ragione e tutto ciò la cui determinazione può essere certificata solo attraverso questa critica non può essere "sensibilizzata" per ridurla a popolarità, proprio perché si occupa della distinzione fra sensibile e soprasensibile. Lo stesso vale per una metafisica formale, perché lavora con princípi che fanno astrazione dalla sensibilità. I suoi risultati, tuttavia, possono essere resi chiari a una ragione sana, che fa metafisica senza saperlo.
In altre parole: la critica e la metafisica kantiana non possono essere "sensibilizzate" perché compiono, a differenza della Popularphilosophie, una scomposizione dell'esperienza che le induce a mettere tra parentesi le rappresentazioni dei sensi. Una "sensibilizzazione" divulgativa le obbligherebbe a rimescolare quanto hanno diviso. 1
Nel caso della filosofia critica, più che sulla popolarità si deve insistere sull'accuratezza scolastica, ossia sull'impiego di un linguaggio tecnico preciso, che aiuti una ragione frettolosa a riflettere su se stessa prima di fare asserzioni dottrinarie.
Che rapporto ha la filosofia critica con le teorie filosofiche precedenti? Ha davvero l'arroganza di sostenere di essere l'unica filosofia?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo preliminarmente chiederci se ci può essere più di una filosofia. La storia del pensiero mostra che ci sono stati più modi di fare filosofia e più modi di risalire a princípi razionali per tentare di fondare un sistema. La ragione umana, tuttavia, è una: dunque, oggettivamente, anche la filosofia deve essere una, così come chi si occupa di morale assume che la virtù sia una e una sia la dottrina della virtù, per il chimico esiste un'unica chimica e per il medico un'unica medicina. Infatti, per possedere un sapere sistematico come dev'essere quello scientifico non basta avere un coacervo di nozioni sparse, sconnesse e incoerenti: tutto deve essere ricondotto entro un orizzonte unitario.
Questo non elimina i meriti storici di chi ha fatto filosofia prima di Kant o chimica prima di Lavoisier e ha permesso ai posteri di imparare dai loro successi e insuccessi. Sul piano teorico, però, sarebbe contraddittorio sostenere che esistano o siano esistite più filosofie diverse, tutte ugualmente vere. Chi fa filosofia, se crede in quello che fa, deve essere anche convinto di lavorare per la filosofia e non per una filosofia. Quando il filosofo critico si comporta come se la sua fosse l'unica filosofia, fa esattamente quello che hanno fatto, fanno e faranno tutti i filosofi passati, presenti e futuri. Se non fosse così, avremmo un universo di teorie incommensurabili e poco meritevoli di essere prese in considerazione: perché studiare l'una e non l'altra, se tutte si equivalgono? 2
Metaphysik der Sitten. 1797.
[ 1 ] In merito alla "divulgazione" la posizione di Kant è rigorosamente anti-paternalistica: il suo illuminismo è un rischiaramento che ha luogo pubblicamente, fra pari e non gerarchicamente, dall'alto. La chiarezza, quando è possibile, è per tutti.
Per poter svolgere quanto annunciato del titolo, Kant spiega che si riferisce alla capacità di desiderare (Begehrungsvermögen), che è la capacità di essere causa degli oggetti delle proprie rappresentazioni, ossia di attuare quello che ci si rappresenta tramite la propria azione. Questa facoltà è in grado di operare solo se il soggetto può agire in conformità alle proprie rappresentazioni, cioè solo se il soggetto è vivo. Kant, in altre parole, collegando la vita al desiderio e alla capacità di perseguire ciò che esso si rappresenta, la definisce in senso attivo e non meramente contemplativo. 4
Alla capacità di desiderare 5 sono collegati il piacere e il dispiacere (Lust, Unlust). La ricettività nei loro confronti - cioè la capacità di provare piacere o dispiacere per una rappresentazione - si chiama sentimento (Gefühl).
Il collegamento fra desiderio e piacere/dispiacere è unidirezionale: se c'è desiderio positivo o negativo c'è sempre anche piacere o dispiacere, ma non viceversa. Infatti, (1) ci può essere un piacere non associato al desiderio dell'oggetto, 6 bensì alla rappresentazione che ce ne facciamo, indipendentemente dalla sua esistenza; (2) il piacere e il dispiacere possono seguire e non precedere il desiderio, cioè essere non la sua causa, ma il suo effetto. 7
Il sentimento contiene solo l'aspetto soggettivo del rapporto con una rappresentazione, cioè solo la relazione della rappresentazione con il soggetto, e non ci dice nulla dell'oggetto che lo provoca: 8 per questo piacere e dispiacere non si possono spiegare più chiaramente, ma se ne possono considerare solo le conseguenze. 9
Kant distingue due tipi di piacere (212):
piacere pratico: quello che è necessariamente legato, come causa o come effetto, al desiderio dell'oggetto dalla cui rappresentazione viene suscitato. Si chiama pratico perché ha un legame con l'azione per far venire a essere l'oggetto;
piacere contemplativo o soddisfazione inattiva: non ha bisogno che l'oggetto esista, ma gode semplicemente della sua rappresentazione. 10
Ristretto il campo dell'indagine al piacere pratico, Kant propone una classifica, fondato sul modo in cui esso determina o viene determinato dalla capacità di desiderare: 11
A. il piacere determina la capacità di desiderare, agendo come causa ("lo desidero perché mi piace"):
desiderio in senso stretto (im engen Verstande Begierde)
se abituale: inclinazione (Neigung)
interesse dell'inclinazione (Interesse der Neigung) 12
B. il piacere è determinato dalla capacità di desiderare ("mi piace perché lo desidero"):
piacere intelligibile 13 (intellectuelle Lust)
inclinazione affrancata dai sensi (propensio intellectualis)
questa inclinazione libera dai sensi è connessa a un interesse di ragione. Tale interesse deve essere puro, perché se fosse co-determinato dalla sensibilità avremmo un piacere che non succede al desiderio, ma lo precede: ricadremmo, così, nel caso A. 14
Fino a questo punto Kant ha descritto la capacità di desiderare attribuendole, genericamente, l'uso di "rappresentazioni". Ora, però, queste "rappresentazioni" sono specificate in forma di concetti, cioè di rappresentazioni unificate dall'intelletto tramite la categorie. Le definizioni successive superano il desiderio per mettere l'accento sulle azioni per soddisfarlo
"Capacità di fare o tralasciare a piacimento" (Vermögen nach Belieben zu thun oder zu lassen) è il nome che attribuiamo alla capacità di desiderare secondo concetti, in quanto il motivo che determina la sua azione si trova in essa stessa e non nell'oggetto. Essa però si chiama anche:
arbitrio (Willkür): se connessa alla coscienza della sua capacità di agire per realizzare l'oggetto;
aspirazione (Wunsch): se sconnessa da questa coscienza;
volontà (Wille): se la ragione è il suo motivo determinante interno, e dunque ciò che rende gradito il progetto d'azione.
La volontà non delibera sull'azione, come l'arbitrio, ma ne giudica il motivo determinante e "non ha essa stessa dinanzi a sé propriamente nessun motivo determinante" (und hat selber vor sich eigentlich keinen Bestimmungsgrund): 15 in questo senso, in quanto può determinare l'arbitrio, Kant dice che è la ragion pratica stessa - vale a dire la ragione che, essendo critica e autonoma, ha, indirettamente, giurisdizione sulla nostra azione, 16 in quanto valuta i progetti dell'arbitrio. Sotto la volontà possono ricadere sia l'arbitrio, sia la mera aspirazione, perché la ragione può determinare la capacità di desiderare in generale.
Non bisogna lasciarsi spaventare da questa complicata nomenclatura: il testo ha sempre lo stesso oggetto, la capacità di desiderare, che riceve nomi diversi a seconda della funzione - risolversi ad agire, vagheggiare, valutare i propri moventi - presa di volta in volta in esame.
L'arbitrio si chiama libero quando può essere determinato dalla ragion pura; si chiama animale (arbitrium brutum) se è determinabile solo dall'inclinazione intesa come stimolo sensibile.
L'arbitrio umano non è né bruto, né puramente razionale (puro): è influenzato (afficiert) dagli stimoli sensibili, ma su di esso agisce anche la ragione. La sua libertà può essere intesa in due sensi: 17
concetto negativo: determinazione indipendente dagli stimoli sensibili;
concetto positivo: "capacità della ragion pura di essere per se stessa pratica", cioè di autodeterminarsi autonomamente, trovando le proprie leggi in se stessa.
La critica della ragion pura ha separato la ragione stessa dalla conoscenza diretta dell'essere, riducendola a facoltà critica: ma come può una facoltà meramente critica essere pratica, cioè dettare leggi per l'azione? La ragione non può offrire la "materia della legge", cioè dei contenuti normativi propri. Però il suo stesso essere critica nasce da una esigenza di universalità: ci mettiamo in discussione, come esseri razionali, perché non possiamo sopportare che quello che sappiamo o crediamo sia in realtà qualcosa di particolare, che vale solo per me o solo per "noi". Questa richiesta, anche se non produce contenuti, ha però una forma: la forma, appunto, dell'universalità.
Il motivo che determina un arbitrio libero sarà dunque l'attitudine della sua massima alla legge universale. La massima di una azione è la regola soggettiva che una capacità di desiderare che opera secondo concetti propone a se stessa; il test di universalizzabilità proposto dall'imperativo categorico serve per capire se questa regola soggettiva può diventare oggettiva, cioè universale. Se, cioè, la mia azione può trovare giustificazione solo per me, oppure sono in grado di legittimarla razionalmente di fronte a tutti gli esseri razionali. 18
Le massime soggettive degli esseri umani non sono di per sé razionali. Per questo la legge della ragione ci si presenta come un comando o imperativo, di divieto o di precetto, cioè come un ordine di un tribunale che è parte di noi, ma nel quale non ci ritroviamo mai completamente. 19
Per distinguere le leggi della natura, deterministiche, da quelle della libertà, 20 Kant chiama queste ultime morali (moralisch), e le divide in:
leggi giuridiche (juridisch) che si occupano delle azioni esterne e della loro conformità esteriore alla legge (legalità delle azioni - legalitas);
leggi etiche (ethisch) che si occupano, nel foro interno, dei motivi che determinano le azioni (moralità delle intenzioni - moralitas).
Kant sostiene che le leggi giuridiche dovrebbero valere anche eticamente, sebbene non sia sempre possibile considerarle sotto questo aspetto. Per diritto, infatti, da giusnaturalista, egli non intende il diritto positivo, ma la norma costruita dalla ragione - il diritto dei filosofi, che dovrebbe misurare lo stesso ordinamento vigente.
Le scienze della natura, che si occupano degli oggetti dei sensi esterni 21 hanno una loro metafisica, vale a dire sono strutturate da un sistema di princípi a priori indipendenti dall'esperienza. Esse, però, intendono descrivere ciò che è dato dall'esperienza: per questo possono permettersi di accogliere, accanto ai princípi a priori, anche dei princípi generali di origine empirica 22 Esempi di questi princípi di origine empirica ma di validità generale sono, nella fisica, il terzo principio della dinamica di Newton; 23 nella chimica, addirittura, tutte le sue leggi fondamentali. 24
Le leggi morali (Sittengesetze), invece, non possono avere parti empiriche, perché non descrivono la natura e non elaborano dati, ma devono essere compatibili con la nostra libertà e indirizzare ad azioni che non sono, o non sono ancora, date: per questo valgono come leggi solo se possiamo intenderle come a priori e necessarie. La contaminazione empirica le priverebbe del loro senso morale, perché le renderebbe contingenti.
Se la morale si riducesse alla dottrina della felicità non potremmo attribuirle princípi a priori. Infatti, anche se può sembrare che la ragione sappia riconoscere senza bisogno dell'esperienza con quali mezzi ottenere un godimento durevole delle vere gioie della vita, quanto si insegna a priori sul tema è per Kant o tautologico o infondato. 25
La dottrina della felicità era una parte centrale della filosofia pratica pre-critica; Kant, però, la rende marginale, non solo moralmente ma anche politicamente. Come già spiegato altrove, la felicità può ben essere compresa come un'idea della ragione, in quanto si riferisce a una totalità che è qualcosa di più di una collezione casuale di momenti lieti. Ma come darle dei contenuti razionali? A questa domanda si può rispondere in due maniere, entrambi insoddisfacenti:
l'idea della felicità include tutto ciò che ci rende felici: questa risposta è necessariamente vera, ma priva di contenuto perché tautologica;
per capire che cosa ci dà gioia abbiamo bisogno dell'esperienza: è dall'esperienza di noi stessi che scopriamo gli istinti naturali verso il cibo, il sesso, il riposo e il moto, nonché, tramite lo sviluppo culturale, l'inclinazione all'onore - vale a dire l'ambizione - o all'ampliamento della nostra conoscenza. L'esperienza insegna - ma a ciascuno nel modo suo proprio - sia dove sia come trovare tali soddisfazioni. In questo caso, però, le norme apparentemente razionali per raggiungere la felicità sono solo esperienza elevata, induttivamente, a una generalità precaria e irta di eccezioni, ossia secundum principia generalia, non universalia: proprio per questo la felicità non può fondare una giustificazione morale che sia universale e necessaria.
La parola tedesca Sitten, similmente al latino mores, designa i costumi intesi come modi di vivere. Ma la risposta alla domanda "che cosa devo fare?" non può venire né, interiormente, dall'osservazione di noi stessi e della nostra animalità, né, esternamente, da quanto accade e da come si agisce nel mondo. Questi elementi descrittivi, in quanto li costruiamo come dati, non hanno nulla a che vedere con la nostra libertà. Le leggi morali hanno autorità su tutti gli esseri razionali non per le loro inclinazioni, ma in quanto sono liberi e dotati di ragion pratica, cioè sono in grado di riflettere criticamente su se stessi e di decidere il corso delle loro azioni sulla base delle leggi della loro autonomia.
La ragione sa anche calcolare il nostro vantaggio, facendo uso dell'esperienza, per offrirci dei consigli di comportamento. Ma la sua preminenza morale non può derivare da questi consigli prudenziali, sia perché la loro generalità è precaria, sia perché dipendono dai contenuti che, soggettivamente, attribuiamo alla felicità. Anche per questo Kant li chiama "consigli" e non comandi: nella deliberazione morale, possono svolgere un ruolo ausiliario ma non possono mai essere l'elemento decisivo.
Filosofia teoretica | Filosofia pratica | |
---|---|---|
Princípi a priori | metafisica della natura | metafisica dei costumi |
Oggetto | natura | libertà dell'arbitrio |
Per Kant, chi riconosce leggi morali universali deve avere, almeno oscuramente, una metafisica dei costumi: l'universalità della legge morale, infatti, può essere correttamente derivata solo da princípi a priori.
In quanto la legge morale deve applicarsi agli esseri umani, è possibile pensare a un'antropologia morale come disciplina empirica illustrativa e applicativa della metafisica dei costumi, ma solo a condizione che la prima sia rigorosamente subordinata alla seconda. Se, infatti, la parte pura fosse derivata da quella applicata otterremmo leggi morali sbagliate o indulgenti, perché basate sull'osservazione dei comportamenti umani e non sugli imperativi della ragion pura. Le conseguenze di questa inversione sarebbero quelle illustrate in Sul detto comune: «questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica».
Anche la tecnica è una forma di azione. Che rapporto ha con la filosofia pratica? 26 Per Kant, la competenza del tecnico si basa su dottrine tecnico-pratiche, interamente fondate sulle leggi, meccaniche, della natura, e dunque da collocare sotto la giurisdizione della filosofia teoretica. 27 Merita il nome di filosofia pratica solo quella che può concepire agenti morali liberi che agiscono secondo leggi della libertà.
Se questa filosofia pratica fosse un'arte, sarebbe l'arte divina di costruire un mondo sistematicamente regolato dalle leggi della libertà. Kant dice quest'arte divina perché essa è inaccessibile agli esseri razionali finiti, i quali sono in grado di governare solo una porzione piccola di se stessi e un'altrettanto piccola porzione del mondo. 28
Kant considera la legislazione nel senso più ampio possibile, includendovi:
rispetto all'oggetto sia le norme che prescrivono azioni esterne, sia quelle che prescrivono azioni interne;
rispetto al soggetto che compie la prescrizione, sia le norme prescritte a priori dalla ragione, sia quelle prescritte dall'arbitrio di un altro (che possono avere a oggetto solo azioni esterne).
La legislazione così considerata è da lui distinta in due componenti:
la legge che trasforma l'azione da compiere in dovere, rappresentandola come oggettivamente necessaria;
il movente (Treibfeder) che collega soggettivamente la determinazione dell'arbitrio a quell'azione. 30
L'elemento oggettivo della legge comprende quindi, in una prospettiva teoretica, la rappresentazione della doverosità della legge. Questa rappresentazione però contiene una determinazione dell'arbitrio soltanto possibile. Per fare il proprio dovere, cioè per determinare effettivamente il proprio arbitrio a mettere in atto la legge, occorre un elemento soggettivo, il movente che mi spinge ad attuare l'azione o l'omissione prescritta dalla legge. Dal punto di vista pratico, l'elemento soggettivo è decisivo. Senza il movente, la legge rimarrebbe un'eventualità teorica: "Dovrei fare X, lo so: ma chi me lo fa fare?". Per questo Kant usa il criterio del movente per suddividere la legislazione in:
Nel caso della legislazione etica chi la attua lo fa per compiere il dovere prescrittogli dalla ragione, autonomamente (moralità). Nella legislazione giuridica, invece, interessa soltanto che l'azione venga eseguita (legalità): per questo il movente può essere diverso dall'idea del dovere e l'arbitrio può essere determinato patologicamente 31 tramite le inclinazioni e le avversioni. 32
I doveri fondati sulla legislazione giuridica (doveri di diritto) sono esclusivamente esterni e sono assicurati solo dall'aggiunta di moventi esterni, vale a dire dalla minaccia di punizioni in caso di inadempienza. Non possono essere interni perché dipendono da una legislazione che non ha bisogno che l'idea del dovere - l'adesione libera alla legge - sia un movente.
I doveri fondati sulla legislazione etica (doveri di virtù) possono essere sia interni sia esterni: ma dato che il loro movente è l'adesione libera alla legge, non possono essere imposti da una legislazione esterna, neppure se divina. Una divinità che obbligasse alla moralità delle intenzioni con un sistema di ricompense e castighi otterrebbe infatti, non diversamente da un despota umano, solo un'obbedienza esteriore fondata sulla paura o sulla speranza: la libertà nel suo concetto positivo non può essere imposta.
Se per diritto s'intende il diritto secondo ragione, tutti i doveri, in foro interno, rientrano direttamente o indirettamente nell'etica, anche se non tutta la legislazione è contenuta nell'etica. Ne rimane fuori, infatti, la legislazione che fa uso della coercizione per ottenere obbedienza - vale a dire le legislazione giuridica. Una persona onesta mantiene la parola data (pacta sunt servanda) anche se nessuno la costringe: ma, dal punto di vista della legislazione, il dovere di tener fede a un contratto che si è firmato è un dovere di diritto 33 - cioè un dovere che insiste su una azione a cui si potrebbe essere costretti.
Rispettare un contratto anche quando nessuno ci costringe a farlo è un'azione virtuosa, ma il suo adempimento è un dovere di diritto. Se così non fosse, il dovere di osservare i contratti sarebbe un dovere etico come, per esempio, quello della benevolenza - il che metterebbe il contraente inadempiente al riparo da ogni coercizione esterna, perché l'obbligazione dell'etica è soltanto interiore. 34
Quest'ultima, densissima, sezione illustra, nella forma di concetti preliminari della metafisica dei costumi, i principali risultati della Fondazione della metafisica dei costumi e della Critica della ragion pratica.
Dal punto di vista teoretico - descrittivo - la libertà è per Kant un concetto trascendente, 35 al di là delle nostre capacità cognitive perché non se può dare un esempio adeguato in nessuna esperienza possibile. Noi, infatti, conosciamo i fenomeni spiegandoli, cioè inserendoli in nessi di causa ed effetto: sostenere che qualcosa è libero, cioè senza una causa, significherebbe dire che è inspiegabile. Ma una simile affermazione bloccherebbe illegittimamente la nostra ricerca; infatti
un essere razionale finito non può mai esaurire tutte le ipotesi di spiegazione: quanto alla luce delle nostra conoscenza attuali oggi sembra inspiegabile, potrebbe, se continuiamo a cercare, non esserlo più domani;
se assumessimo qualcosa come inspiegabile in quanto libero impediremmo a tutti, senza giustificazione, di indagare sulle sue eventuali cause.
L'idea di libertà è dunque un concetto puro della ragione: la sua funzione è solo regolativa e non costitutiva. Non la possiamo usare, in altre parole, per dar forma a oggetti dotati di una componente empirica. È solo un orizzonte dell'indagine, per di più meramente negativo: noi abbiamo bisogno di spiegare tutto, ma chi ci assicura che tutto sia spiegabile in termini causali?
Kant, però, pensa che sul piano dell'azione la ragione mostra che questo concetto ha una sua Realität, cioè è possibile trattarla come qualcosa che ha una sua qualità. 36
Questo concetto della libertà è chiamato positivo perché non è, negativamente, una semplice indipendenza da causa empiriche, ma una vera e propria capacità di autolegislazione o autonomia. È dalle leggi per l'azione che possiamo conoscere la libertà e non viceversa, perché una conoscenza teoretica di una libertà dotata di qualità affermativa, cioè teoreticamente descrivibile, ci è, come abbiamo visto, preclusa. Le leggi morali, rispetto al nostro arbitrio, che non si lascia guidare solo dalla ragione, ci si presentano come imperativi categorici (incondizionati) e non come imperativi tecnici (prescrizioni dell'arte). Questi ultimi imperativi sono ipotetici in quanto hanno autorità solo se noi vogliamo l'oggetto che essi aiutano a produrre.
In virtù degli imperativi le azioni possono essere
moralmente possibili o permesse (erlaubt)
moralmente impossibili o non permesse (unerlaubt)
moralmente necessarie o obbligatorie (verbindlich)
Ed è dal rispetto dell'imperativo categorico che scaturisce, come mero effetto della determinazione dell'arbitrio e non come motivo della leggi pratiche, il sentimento morale con la sua variabilità soggettiva. Kant riduce il sentimento morale - contro Hutcheson - a una conseguenza soggettiva delle nostre valutazioni in coerenza con la sua critica alla morale come dottrina della felicità: l'esperienza non gode dell'universalità necessaria per poter fondare una legge morale valida per tutti.
Kant elenca alcuni concetti che sono comuni a diritto ed etica. Il primo di questi concetti è l'obbligazione (Verbindlichkeit), definita come "la necessità di una azione libera sotto un imperativo categorico della ragione".
Perché Kant usa il termine "imperativo" in luogo di "legge pratica"? La legge pratica presenta 37 la necessità di una azione, ma non dice se essa sia anche internamente necessaria per il soggetto agente, oppure accidentale perché questi potrebbe anche scegliere altrimenti. Si danno dunque due casi possibili:
la legge pratica non è un ordine per un essere santo, in grado di farla propria spontaneamente senza aver bisogno di essere obbligato, in quanto la sente come intimamente necessaria;
la legge pratica è un ordine per un essere, come quello umano, capace di desiderare altrimenti. Soltanto in questo caso la legge è anche un imperativo, perché il soggetto l'avverte come una costrizione.
L'imperativo è a sua volta
ipotetico o tecnico, quando costringe mediatamente, tramite uno scopo conseguibile con l'azione imposta - cioè quando lo riconosciamo come un ordine solo se desideriamo ottenere quello scopo;
categorico, quando costringe immediatamente, perché la forma della legge è anche la forma della libertà nella determinazione dell'arbitrio. La costrizione è immediata perché non avviene tramite uno scopo che l'azione conseguirà. bensì tramite la rappresentazione della forma o struttura dell'azione stabilita dalla legge. 38
Una azione può essere:
permessa (licitum): se non è contro l'obbligazione.
non permessa o illecita (illicitum): se è contro l'obbligazione.
La facoltà 39 (facultas moralis) è la libertà di fare tutto quello che non è ristretto dall'imperativo.
Il dovere (Pflicht) è la materia dell'obbligazione, cioè l'azione a cui l'essere umano è obbligato. Secondo l'azione ci può essere un unico dovere; esso però può essere introdotto da obbligazioni di tipo diverso.
L'atto (That) è un'azione in quanto sottostà alle leggi dell'obbligazione. Il soggetto che la compie va considerato secondo la libertà del suo arbitrio. L'effetto dell'atto può essere imputato al suo autore assieme all'azione se si conosce prima la legge su cui si fonda l'obbligazione stessa. 40
In altre parole, quando diciamo che un'azione è un atto, affermiamo che un agente morale l'ha scelta col suo libero arbitrio e che gli esiti della sua scelta gli sono imputabili. Persona, dunque, è il soggetto le cui azioni sono passibili di imputazione - cioè sono attribuibili alla sua scelta ed è possibile chiedergliene conto. Per avere una personalità morale 41 occorre dunque essere liberi, ragionevoli e sottoposti alle leggi morali. E perché libertà e legge siano compatibili, una persona non può essere sottomessa ad altra legge se non a quella che si dà da sé, da sola o insieme con altri. 42
Cosa (res corporalis) è tutto ciò che, pur essendo oggetto del libero arbitrio, non è passibile di imputazione, perché incapace di darsi leggi da sé.
L'atto conforme o contrario al dovere si chiama genericamente retto o non retto (rectum aut minus rectum); specificamente, se il dovere è una legge esterna, l'atto conforme o contrario si chiama giusto o ingiusto (iustum, iniustum). Per quanto concerne la legge esterna, essa può essere:
legge naturale, se l'obbligazione è riconosciuta a priori come vincolante dalla ragione
legge positiva: quando è vincolante solo se c'è una legislazione esteriore che la impone.
Per Kant è possibile pensare una legislazione esterna esclusivamente positiva: essa però ha bisogno di una legge naturale che fondi l'autorità del legislatore, cioè la sua facoltà di vincolare gli altri con il proprio arbitrio. Il diritto naturale, in altri termini, è il criterio di legittimazione per il quale un sistema di diritto positivo si distingue da una mera imposizione basata sulla forza. Il diritto naturale per fungere da unità di misura della legittimità di un ordinamento non ha bisogno di essere positivo; il diritto positivo, di contro, per essere legittimo ha bisogno di intersecarsi col diritto naturale almeno per quando concerne il fondamento dell'autorità del legislatore.
Il giusnaturalismo di Kant influenza i termini da lui usati per classificare gli atti contrari al dovere. Noi, infatti, siamo abituati a impiegarli nel diritto, ma qui valgono anche per l'etica. Un atto contrario al dovere si chiama trasgressione (reatus) 43 e si distingue in:
colpa (culpa): trasgressione non intenzionale e tuttavia imputabile;
delitto (dolus): trasgressione intenzionale, cioè connessa alla coscienza che si tratta di una trasgressione.
Il conflitto fra doveri (collisio officiorum seu obligationum) è una condizione comune ai personaggi delle tragedie: Oreste, per esempio, si trova a dover violare i suoi obblighi filiali uccidendo la madre per vendicare il padre. Secondo Kant, però, il conflitto fra doveri è propriamente impossibile. Infatti dovere e obbligazione esprimono la necessità oggettiva pratica di certe azioni: poiché non ci possono logicamente essere due regole contrapposte entrambi necessarie, oggettivamente soltanto una delle due avrà forza obbligante.
Soggettivamente, però, una persona può trovare in sé due motivi di obbligatorietà (rationes obligandi) in reciproco contrasto. L'uno o l'altro di questi non è sufficiente ad obbligare: uno dei due, dunque, non è un dovere. 44 In una situazione come questa non si può dunque dire in casu collisionis vincit obligatio fortior, bensì che prevale la ragione d'obbligazione più forte 45
In altri termini, per Kant un conflitto fra doveri come quello di Oreste non è oggettivamente tale: uccidere la madre per vendetta è soltanto ingiusto, e non contemporaneamente giusto e ingiusto. Se Oreste si fosse liberato dalle contraddizioni di un codice morale irrazionale e avesse ragionato correttamente non avrebbe continuato la catena degli omicidi familiari con un'altra vendetta: si sarebbe limitato a porre la madre in stato d'accusa in tribunale. Ma anche così, soggettivamente, Oreste si sarebbe potuto però sentire lacerato fra due motivi di obbligazione: il vincolo della pietà filiale nei confronti della madre e il dovere, verso il padre e verso la società, di assicurarla alla giustizia. Un conflitto fra due motivi d'obbligazione può essere doloroso per chi lo vive, ma, anche in questo caso, la soluzione è una soltanto: il dovere morale di denunciare la madre è un motivo d'obbligazione più forte dell'affetto che il figlio può provare per lei. 46 Se c'è conflitto, dunque, esso è soltanto soggettivo: la morale di Kant, proprio in virtù del suo formalismo, è - almeno oggettivamente - tanto antitragica quanto quella di Platone.
La legge pratica è il principio che fa di certe azioni un dovere. La massima è il principio soggettivo dell'agire, cioè la regola personale sulla base della quale il soggetto vuole agire. Gli agenti possono arrivare alla stessa legge da massime reciprocamente molto diverse.
L'imperativo categorico "Agisci secondo una massima che allo stesso tempo possa valere come una legge universale" rappresenta la deliberazione morale in due fasi:
l'adozione di una massima, vale a dire del principio soggettivo sulla base del quale si intende agire;
la prova dell'universalizzabilità, per stabilire la validità oggettivo del nostro progetto.
Nella seconda fase, il soggetto che delibera prova a far finta di essere il legislatore dell'universo per capire che cosa succederebbe se la sua massima non valesse soltanto per lui, ma per tutto e per tutti. L'agente morale umano è un soggetto finito, ma, quando delibera moralmente, si assume la responsabilità dei pezzo di mondo che crea con la sua azione immaginandolo non come un particolare a se stante, ma come la tessera di un mosaico a cui egli stesso contribuisce a dar forma.
Questa legge, con la sua esigenza di universalità, così apparentemente semplice e così priva di movente, riesce tuttavia a fare una cosa che era risultata impossibile tramite fondamenti sia a priori sia empirici: provare la libertà dell'arbitrio.
La volontà è la facoltà delle leggi, l'arbitrio quella delle massime. Solo quest'ultimo può essere detto libero, almeno per quanto concerne gli esseri umani.
Secondo Kant, infatti, la volontà non si riferisce alle azioni, bensì alla stessa ragion pratica, vale a dire alle leggi delle azioni. Non può essere detta né libera né non libera, perché la sua funzione non è deliberativa, bensì - come quella di una corte costituzionale - ricognitiva: deve ragionare sulla legislazione valida per le massime delle azioni, non decidere che cosa fare. Per questo è assolutamente necessaria e allo stesso tempo non idonea alla necessitazione. 47 Una necessità non atta a necessitazione è comune a tutti i ragionamenti: logicamente, non posso fare a meno di riconoscere, per esempio, la necessità del principio di non contraddizione ma non posso né costringere né essere costretto a riconoscerlo se non riesco a farlo da me. 48 Solo l'arbitrio, dunque, può essere detto libero, in quanto non giudica le leggi, ma delibera sulle azioni, recitando in noi - metaforicamente - la parte del potere esecutivo.
La libertà dell'arbitrio non può però definirsi come libertas indifferentiae, cioè come la facoltà della scelta di agire pro o contro la legge, sebbene l'esperienza ci offra una grande quantità di esempi di uomini che, come esseri sensibili, agiscono secondo o contro la legge. Secondo Kant, infatti, la nostra conoscenza teoretica e pratica della libertà offre solo prospettive parziali che non possiamo ricomporre:
la presenza in noi della legge morale indica, negativamente, che noi non siamo necessitati ad agire da nessun motivo determinante sensibile: se, infatti, fossimo interamente soggetti alla leggi della natura non potremmo essere considerati come agenti morali;
tuttavia, se consideriamo la libertà come noumeno, cioè come carattere dell'essere umano in quanto mera intelligenza, non riusciamo a rappresentare teoreticamente in che modo essa possa necessitare l'arbitrio sensibile. Sappiamo che la libertà c'è, in virtù della legge, ma non possiamo conoscerla direttamente: per questo non siamo neppure in grado di spiegare in che modo agisca.
Queste due prospettive non possono essere messe insieme, perché hanno origini diverse - intelligibile l'una, sensibile l'altra.
L'esperienza, è vero, ci mostra esseri umani che fanno - e dunque hanno la facoltà di fare - scelte sia in conformità alla legge morale, sia contro di essa. Ma quanto vediamo riguarda gli uomini in senso empirico e non può dirci nulla del libero arbitrio come oggetto intelligibile, che noi non conosciamo per esperienza, ma a partire dalla legge morale, in quanto suo presupposto.
Non possiamo dunque sostenere che la libertà di un essere razionale sia definibile come la possibilità di fare una scelta in contrasto con la sua ragione, anche se questo è quanto spesso empiricamente accade, perché adotteremmo una proposizione empirica come principio esplicativo e come carattere distintivo universale, appartenente necessariamente al concetto di arbitrio libero.
Logicamente, inoltre, la libertà intelligibile è una capacità - quella di autodeterminarsi secondo la legge della ragione. L'esperienza indica che l'uomo talvolta evita di seguire questa legge, cioè non sempre è capace di seguirla. Come facciamo a definire una capacità tramite un'incapacità? Sarebbe come dire che l'arbitrio umano è libero, cioè sfugge al determinismo delle leggi di natura, perché talvolta ricade sotto questo determinismo.
Dunque: in senso positivo, la libertà dell'arbitrio va definita, intelligibilmente, come la sua facoltà di autodeterminarsi secondo la legge di ragione, superando le leggi di natura, anche se teoreticamente non riusciamo a indicare in che modo questa determinazione avviene, perché non siamo in grado di leggerla nell'esperienza.
Kant ha definito la legge in senso pratico-morale come una proposizione che contiene un imperativo categorico, cioè un comando. Chi comanda è il legislatore: essere legislatori - precisa Kant - significa essere autori dell'obbligazione derivata dalla legge e non necessariamente anche autori della legge.
Quando il legislatore è anche autore della legge, allora essa è positiva e arbitraria. Possiamo pensare, allora, la legge naturale come idealmente scritta da un autore?
Una risposta a questa domanda si trova nel modo in cui è descritta la legge della ragione: essa - spiega Kant - ci vincola a priori e senza condizioni, in quanto espressione, ma non in quanto opera, di una volontà divina. Dio, dunque, non è autore delle leggi morali secondo ragione, e non può neppure esserlo. Se lo fosse, infatti, le sue leggi non sarebbero naturali, bensì positive e quindi arbitrarie. La volontà divina va dunque intesa come la volontà di un legislatore supremo, che ha solo diritti e non doveri, non perché Dio ha la prerogativa di inventare e di imporre leggi ad arbitrio, bensì perché la sua volontà, a differenza di quella umana, è santa.
Il razionalismo morale 49 di Kant si mostra in questo passo con chiarezza: le leggi che hanno un autore, siano esse di produzione divina o di produzione politica, essendo strutturalmente esposte al rischio di essere arbitrarie, sono bisognose di legittimazione. Invece la legge che si scopre con e nella ragione, prima di ogni diritto positivo, si legittima da sé tramite la scoperta e il riconoscimento di tutti gli esseri razionali. Proprio per questo, la legge naturale non ha e non può avere un autore.
In senso morale, l'imputazione è, genericamente, il giudizio con cui si è considerati autori (causa libera) di un atto. Specificamente si distingue in:
imputatio diiudicatoria o estimativa, quando è compiuta senza conseguenze giuridiche;
imputatio iudiciaria seu valida: è un'imputazione dotata di valore legale, compiuta da una persona (fisica o morale) autorizzata a farlo, vale a dire da un giudice o da un tribunale.
Il nostro grado di rispetto della legge (giuridica) può condurre a un atto:
meritorio (meritum), quando si fa più di quanto la legge impone;
dovuto (debitum), quando si fa quanto la legge richiede;
colpevole (demeritum) 50 quando si fa meno di quanto dovuto.
L'effetto giuridico di un atto meritorio è la ricompensa (praemium), promessa dalla legge col presupposto che questa promessa induca all'atto; quello di un atto colpevole è la pena; quello di un atto semplicemente dovuto, nessuno. Un compenso benevolo (remuneratio seu repensio benefica) non ha nessun rapporto giuridico con l'atto perché non c'è una norma che lo promette come incentivo all'atto.
1. Quali conseguenze dell'atto possono essere oggettivamente imputate al soggetto agente, quando il suo comportamento è meritorio, dovuto o colpevole? Kant risponde facendo uso di una estensione pratica di due note regole di deduzione: il modus ponens e il modus tollens.
A. Ecco un esempio di deduzione corretta con il modus ponens:
Antecedente: P --> Q ("se sono a Pisa, sono in Toscana")
Conseguente: P ("sono a Pisa")
Conclusione: Q ("sono in Toscana")
Kant trasforma il modus ponens in un modus imputationis ponens per affermare che le conseguenze buone delle azioni meritorie e quelle cattive delle azioni colpevoli possono essere imputate al soggetto agente. Infatti, in entrambi i casi, io non sono obbligato a compiere P o mi è addirittura vietato farlo. Quindi, se invece faccio P, Q è una conseguenza non solo di P, ma anche della mia scelta di fare P: mi sarà dunque imputabile perché proprio la mia scelta non obbligata ha provocato P che è condizione di Q. Schematicamente:
Antecedente: P --> Q
Conseguente: P [io scelgo di fare P]
Conclusione: Q [quindi Q mi è imputabile]
Il modus imputations ponens 51 serve, affermativamente, per attribuire meriti e colpe a chi ha scelto di fare azioni che non era tenuto a compiere.
B. Ecco un esempio di deduzione corretta con il modus tollens:
Antecedente: P --> Q ("se sono a Pisa, sono in Toscana")
Conseguente: non Q ("non sono in Toscana")
Conclusione: non P ("non sono a Pisa")
Ed ecco un esempio di deduzione con il modus tollens che contiene una famosa fallacia formale, la negazione dell'antecedente:
Antecedente: P --> Q ("se sono a Pisa, sono in Toscana")
Conseguente: non P ("non sono a Pisa")
Conclusione errata: non Q ("non sono in Toscana")
La fallacia è dovuta all'unidirezionalità del nesso fra P e Q. P è una condizione di Q: questo ci permette di dire che se non c'è Q allora manca anche la sua condizione P. P non è, però, la sua unica condizione possibile! Posso essere in Toscana anche se non sono a Pisa, sulla base di condizioni diverse da P (se per esempio mi trovo a Lucca, Grosseto, Livorno, Arezzo e così via). 52
Kant trasforma il modus tollens in un modus imputationis tollens per affermare che le conseguenze delle azioni dovute e delle omissioni di azioni meritorie non possono essere imputate al soggetto agente. Io non ho compiuto P o perché una norma di diritto me lo proibiva o perché nessuna legge mi obbligava a farlo: 53 ma addossarmi la responsabilità della conseguenza negativa "non Q" sarebbe un errore di deduzione, e precisamente una negazione dell'antecedente. Da "non P", infatti, non segue necessariamente "non Q" perché Q può scaturire da numerose altre condizioni che nulla hanno a che vedere con la mia azione o la mia omissione. Schematicamente:
Antecedente: P --> Q
Conseguente: non P [non faccio P perché o è proibito o non sono tenuto a farlo]
Conclusione errata: non Q ["non Q" non mi è imputabile perché non segue necessariamente da "non P"; non si può dunque dire che è l'esito inevitabile di una scelta mia] 54
Il modus imputations tollens 55 serve, negativamente, per discolpare chi ha omesso di compiere un'azione che non era tenuto a fare, o perché proibita o perché non imposta dal diritto.
Questa complessa struttura, parzialmente rispecchiata dall'argomentazione del saggio Su un presunto diritto di mentire per amore degli esseri umani, serve a Kant per sostenere che mi sono imputabili le conseguenze degli atti che compio oltre la legge, perché interamente riconducibili a scelte non obbligate, sia che superino sia che violino quanto sarebbe dovuto. Non mi sono invece imputabili le conseguenze degli atti che rimangono nei limiti della legge, sia quando faccio il dovuto, sia quando mi limito ad astenermi da quanto non è dovuto. Se io rimango nel perimetro della legge morale, in altre parole, non mi può essere addossata la responsabilità della complessità e dell'irrazionalità etica del mondo. 56
2. Dal punto di vista soggettivo, il grado di imputabilità delle azioni si basa sul criterio dei vincoli naturali (sensibili) e morali (del dovere):
per quanto concerne il merito: aumenta in modo direttamente proporzionale all'entità dei vincoli naturali e inversamente proporzionale all'intensità dei vincoli morali. Per esempio è altamente meritorio l'atto di chi, mettendo a repentaglio la propria vita, salva quella di una persona a lui completamente estranea senza essere obbligato a farlo;
per quanto concerne la colpa: aumenta in modo inversamente proporzionale all'entità dei vincoli naturali e direttamente proporzionale all'intensità dei vincoli morali. Per esempio, è più colpevole un omicidio premeditato con freddezza rispetto a uno compiuto in un impeto di rabbia.
[ 3 ] Sittengesetzen è meglio traducibile come "leggi morali" o addirittura, più alla lettera, "leggi dei costumi", alla luce della distinzione fra leggi giuridiche ed etiche contenuta in 214. Vedi per esempio Alice Ponchio, Il rapporto tra etica e diritto. Per un’interpretazione comprensiva della morale di Kant, 2009 pp. 21-22. La versione adottata da Landolfi Petrone "leggi etiche" risente probabilmente dell'uso del termine nell'ambiente giuspositivistico
[ 4 ] Questo inizio della metafisica dei costumi dal desiderio e non dall'essere può essere visto come un esito della delegittimazione, compiuta dalla filosofia critica, delle etiche metafisiche. le quali fondavano il dover essere sull'essere.
[ 5 ] Il desiderio può essere orientato negativamente o positivamente: in questo secondo caso prende il nome di avversione.
[ 6 ] Non tradurrei Gegenstand con "oggetto fisico": si possono infatti desiderare anche oggetti del tutto incorporei, quali, per esempio, il miglioramento della propria reputazione. Suggerisco al lettore della traduzione adottata come riferimento di cancellare "fisico" in corrispondenza di tutte le occorrenze di Gegenstand, lasciando solo il generico "oggetto".
[ 7 ] Così funziona, per esempio, il sentimento morale discusso nella IV sezione dell'introduzione in Sul detto comune: «questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica», 283-284.
[ 8 ] In altre parole, sapere che X piace a qualcuno aiuta ben poco a capire che cosa sia X.
[ 9 ] Si parla invece di senso quando l'elemento soggettivo della nostra rappresentazione non è riferito al piacere e al dolore che proviamo noi, ma a qualcosa da conoscere, secondo la forma (intuizione pura) o secondo la materia (sensazione), per poi essere pensato, cioè trasformato in oggetto di conoscenza, da parte dell'intelletto.
[ 10 ] Il sentimento di questo tipo di piacere è detto gusto (Geschmack) ed è per Kant di interesse solo occasionale per la filosofia pratica, perché - comunque lo si voglia interpretare - è contemplativo e non attivo.
[ 11 ] La concupiscenza, come stimolo a determinare il desiderio, va distinto dal desiderio, perché è una predisposizione sensibile dell'animo, ma di per sé non è ancora un atto della capacità di desiderare. In altre parole: una cosa è essere genericamente golosi, un'altra desiderare, qui e ora, un bel gelato.
[ 12 ] L'interesse è il legame del piacere con la capacità di desiderare, quando l'intelletto lo giudica valido secondo una regola generale anche solo soggettiva. Per esempio: "non solo sono abituato a preferire la verdura perché mi piace, ma ho anche interesse a farlo, perché la verdura fa bene alla mia salute".
[ 13 ] La traduzione "intelligibile" evita l'equivoco con l'intelletto (Verstand) nel senso specifico attribuitogli da Kant, vale a dire "la facoltà conoscitiva che rimane entro i propri limiti, e che all’oggetto, assunto attraverso le forme della sensibilità, applica le forme pure dell’intelletto o categorie" (G. Marini, La filosofia cosmopolitica di Kant, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 14).
[ 14 ] Questa seconda tripartizione, che Kant costruisce per amor di simmetria, potrebbe però essere meglio illustrata così, sulla scorta di quanto successivamente illustrato: l'interesse di ragione conduce ad adeguare la massima dell'azione alla legge della ragione stessa, e l'azione secondo la legge provoca un piacere intelligibile che consiste nella soddisfazione di essersi comportati bene. Il desiderio abituale a di comportarsi secondo la legge è l'inclinazione affrancata dai sensi.
[ 15 ] La traduzione di Landolfi Petrone "non ha di per sé in verità alcun motivo determinante" fa pensare che la volontà sia priva di motivi, quando Kant dice invece che essa non riconosce nessun motivo esterno e/o superiore.
[ 16 ] Nella filosofia critica la ragione funge da tribunale: come la magistratura giudicante non prende iniziative, perché l'essere le è divenuto inaccessibile, ma giudica le istanze che le presentano parti altre da se stessa. Quando è pratica la ragione, insistendo non su un mondo dato ma su un agente libero, è però in grado di produrre una propria legalità di carattere, come avremo modo di vedere, formale o strutturale.
[ 17 ] Questi due sensi - che Kant tratta come due facce di una stessa medaglia - ricevettero un'applicazione politica nel corso della seconda metà del XX secolo, tramite Norberto Bobbio e Isaiah Berlin.
[ 18 ] Per un'illustrazione si rinvia al celebre esempio del deposito, contenuto in Sul detto comune: «questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica» (1793).
[ 19 ] L'imperativo è dunque il modo in cui la legge si presenta a un essere le cui scelte possono essere determinate anche da qualcosa di diverso della legge della ragione.
[ 20 ] La legalità dell'imperativo categorico è fondata sull'autonomia della ragion pratica, e presuppone un soggetto capace di autodeterminarsi in modo non meccanico.
[ 21 ] Cioè quanto viene percepito nello spazio. Delle due forme pure dell'intuizione, lo spazio è la forma del senso esterno e il tempo la forma del senso interno.
[ 22 ] Kant afferma che questi princípi, per essere veramente universali, dovrebbero essere indipendenti dall'esperienza, per la quale quanto è risultato generalmente valido fino a oggi può sempre essere smentito domani. Nel testo Kant usa le espressioni allgemein e in strenger Bedeutung allgemein: ho preferito parafrasarlo rendendo il primo termine, riferito ai princípi di origine empirica, con "generale", e il secondo come "universale", come indicato dalla frase latina citata da Kant poche righe dopo (216).
[ 23 ] I. Newton, Philosophiae Naturalis Principia Mathematica - Axiomata, sive Leges Motus. lex III. Il principio recita che a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.
[ 24 ] Kant allude alle leggi fondamentali ponderali della chimica, e in particolare, per motivi cronologici, alla legge di Lavoisier o della conservazione della massa.
[ 25 ] La traduzione di Landolfi Petrone "per quanto sia evidente che la ragione riconosce..." non sottolinea a sufficienza il valore concessivo di "Denn so scheinbar es immer auch lauten mag: daß die Vernunft noch vor der Erfahrung einsehen könne, durch welche Mittel man zum dauerhaften Genuß wahrer Freuden des Lebens gelangen könne, so ist doch alles, was man darüber a priori lehrt, entweder tautologisch, oder ganz grundlos angenommen" e rende difficile la comprensione dell'intero periodo. È più fedele la versione inglese di Mary Gregor: "For however plausible it may sound to say that reason, even before experience, could see the means for achieving a lasting enjoyment of the true joys of life, yet everything that is taught a priori on this subject is either tautological or assumed without any basis" (I. Kant, The Metaphysics of Morals, Cambridge, Cambridge U.P., 1991)
[ 26 ] Kant scrive che la filosofia pratica si identifica con la moralische Weltweisheit o "sapienza morale mondana": è, cioè, filosofia morale e non teologia morale. In una filosofia pratica incentrata sulla felicità assimilare sapienza e prudenza è veniale, perché la seconda si può ricondurre metafisicamente alla prima, essendo entrambe fondate sull'antropologia. Nell'impianto critico, però, la prudenza non è più in grado di produrre autentiche leggi morali e non può più essere confusa con la sapienza.
[ 27 ] Le regole tecnico-pratiche, costruite su leggi meccaniche, ci si presentano come imperativi ipotetici (condizionati) e non categorici (incondizionati).
[ 28 ] Questo accenno allude a due temi importanti del pensiero di Kant: il contrasto fra la finitezza dell'agente morale razionale e l'universalità della legge, e il problema della filosofia della storia.
[ 29 ] Kant usa l'espressione "deduzione" nel suo senso giuridico, di dimostrazione della legittimità della pretesa che si avanza. E annota (218) che dimostrare, in questo senso, la legittimità di una partizione entro un sistema è un compito difficile: bisogna infatti provare sia la completezza della nostra suddivisione, cioè che le parti ricongiunte insieme ricostituiscano l'intero sistema, sia la sua continuità, cioè che fra le varie parti non ci siano salti. Bisogna inoltre essere in grado di indicare quale sia il concetto superiore (oberst) che stiamo suddividendo, diversamente da quanto fanno gli ontologi quando cominciano dalla coppia qualcosa-nulla, senza rendersi conto che hanno suddiviso un concetto superiore, l'oggetto in generale. Nel caso della partizione fra giusto e dell'ingiusto ciò che si sta suddividendo è l'atto del libero arbitrio in generale. Detto più semplicemente: gli atti del libero arbitrio sono suddivisibili in "giusti" e "ingiusti".
[ 30 ] "Movente" è da intendersi nel senso generico di ciò che muove.
[ 31 ] Cioè tramite le passioni o affezioni, e quindi sensibilmente. Il diritto costringe preferibilmente tramite le avversioni e fonda la sua forza coercitiva sulla minaccia di sanzioni.
[ 32 ] Quando io rispetto una norma esclusivamente per timore della punizione, la mia azione è eteronoma, cioè deriva da una legalità non mia, ma altrui.
[ 33 ] Kant considera un obbligo giuridico anche l'adesione al pactum unionis civilis. Se infatti l'adesione fosse un dovere soltanto etico, non usciremmo mai dallo stato di natura, perché il rispetto del diritto rimarrebbe facoltativo.
[ 34 ] Proprio per questo il dovere di benevolenza, anche se comporta delle azioni esterne, non può essere un dovere di diritto: il suo oggetto, infatti, è l'atteggiamento dell'animo che ispira delle azioni esterne benevole. Le medesime azioni, se compiute per un movente diverso dal dovere - per esempio per migliorare la propria reputazione - non meriterebbero di essere chiamate virtuose.
[ 35 ] Non bisogna confondere trascendente con trascendentale. Per la filosofia scolastica trascendentali erano i termini così universali - come qualcosa, vero, buono - da essere predicabili di ogni genere di cosa: "Quae, sicut et res, aliquid, verum, bonum, propter maximam universalitatem, qua in omnibus generibus implicatur, vocantur trascendentalia" (S. Bonaventurae Commentaria, I, II, q. 4). Kant usa l'espressione trascendentale per indicare ciò che, pur non dipendendo dall'esperienza, le dà forma rendendola intelligibile.
[ 36 ] La Realität (realtà) è una delle categorie della qualità; è diversa da Wirklichkeit (effettualità, esistenza) che appartiene invece alle categorie della modalità. Affermare che la libertà ha realtà significa dire non tanto che "esiste" ma che si può predicare positivamente qualcosa su di essa. Kant, in altri termini, pensa che nell'ambito pratico, possiamo descrivere la libertà positivamente e non solo negativamente grazie ai princípi che determinano l'arbitrio. Quando ci chiediamo "Che cosa devo fare?" e cerchiamo di darci una risposta razionale, facciamo entrare in gioco una legge di ragione che dimostra la presenza in noi di una volontà pura dotata di una sua propria legalità indipendente dall'esperienza.
[ 37 ] "Vorstellig macht": si veda il lemma in Deutsches Wörterbuch von Jacob Grimm und Wilhelm Grimm.
[ 38 ] In termini "popolari": chi apprezza un'azione come morale lo fa in quanto la riconosce come "disinteressata" e non strumentale a un qualche scopo.
[ 39 ] Preferisco tradurre la Befugnis di Kant come "facoltà" e non come "autorizzazione" perché la seconda versione darebbe per risolta la questione dell'esistenza di leggi permissive, che Kant si pone a pagina 223. Un'azione non comandata né vietata è semplicemente permessa, perché nessuna legge ne limita la facoltà: se un'azione del genere ci fosse, sarebbe moralmente indifferente (indifferens, adiaphoron, res merae facultatis). Stando così le cose, si chiede Kant, accanto ai precetti e ai divieti devono esistere anche delle leggi permissive per governare la facoltà? La sua risposta è duplice:
se le azioni sono moralmente indifferenti, non occorrono speciali leggi permissive;
se occorrono delle leggi permissive, allora le particolari azioni permesse non sono moralmente indifferenti.
[ 40 ] Si veda, per comprendere meglio questa affermazione, quando dice Kant sulla responsabilità del mentitore nel saggio del 1797 Su un presunto diritto di mentire per amore degli esseri umani.
[ 41 ] La personalità morale è da Kant distinta dalla personalità in senso psicologico, che è la coscienza della propria identità nelle varie circostanze del proprio esserci (Dasein).
[ 42 ] Questa tesi ha importanti conseguenze politiche.
[ 43 ] Reatus indica, nella tradizione romanistica, la condizione di chi è in stato d'accusa, o, più genericamente, la colpa.
[ 44 ] La traduzione di Landolfi Petrone "nessuna delle quali", in luogo del letterale "l'uno o l'altro", rende il testo poco chiaro.
[ 45 ] Così per esempio Chr. v. Wolff, Institutiones iuris naturae et gentium in quibus ex ipsa hominis natura continuo nexu omnes obligationes et iura omnia deducuntur. 1774, I.II §65.
[ 46 ] Kant presenta un esempio simile nella seconda parte di Sul detto comune: «questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica», 300 n, discutendo dello ius in casu necessitatis.
[ 47 ] "Daher auch schlechterdings nothwendig und selbst keiner Nöthigung fähig ist": conviene, nella traduzione, far rilevare la presenza di Not (necessità) in entrambe le occorrenze.
[ 48 ] Il romanzo 1984 di George Orwell suggerisce che sia possibile spazzar via anche la capacità di ragionare con le tecniche pervasive di manipolazione della mente tipiche dei sistemi totalitari. Ma anche questa estrema oppressione non insiste, propriamente, sulla ragione e sulle sue leggi, bensì sulla capacità di un essere razionale finito di usare la sua facoltà.
[ 49 ] Per un'illustrazione della differenza fra razionalismo e volontarismo etico si rinvia al dilemma dell'Eutifrone di Platone.
[ 50 ] In tedesco Schuld significa sia "debito" sia "colpa".
[ 51 ] Letteralmente: "modo affermante dell'imputazione".
[ 52 ] Alla negazione dell'antecedente corrisponde, nel modus ponens, la fallacia dell'affermazione del conseguente. Anche in questo caso, la radice dell'errore è la medesima: se P è semplicemente una delle tante possibili condizioni di Q, il verificarsi di Q non implica affatto che valga necessariamente anche Q. Posso essere in Toscana anche in base a condizioni diverse da P.
Antecedente: P --> Q ("se sono a Pisa, sono in Toscana")
Conseguente: Q ("sono in Toscana")
Conclusione errata: P ("sono a Pisa")
[ 53 ] Uso come esempio una omissione dovuta a un obbligo giuridico o alla sua assenza perché perché si è tipicamente messi sotto accusa quando si è compiuto "non P", essendo P o non obbligatorio o addirittura proibito, sulla base della presunzione - fallace - che la conseguenza negativa "non Q" sia dovuta a "non P".
[ 54 ] Un esempio famoso di questo modo di ragionare si trova nella discussione sulla responsabilità del mentitore nel saggio kantiano Su un presunto diritto di mentire per amore degli esseri umani (AK VIII, 426-428).
[ 55 ] Letteralmente: "modo negante dell'imputazione".
[ 56 ] Anche la distinzione fra sapienza e prudenza politica contenuta nella prima appendice della Pace perpetua ricalca questo modo di ragionare: è la legge che misura la nostra responsabilità, perché "il dio Termine della morale non cede a Giove (il dio Termine del potere); questo, infatti, è ancora sottoposto al destino, cioè la ragione non è abbastanza illuminata per abbracciare con lo sguardo la serie delle cause predeterminanti, che permettono di preannunciare con sicurezza, secondo il meccanismo della natura, l'esito fortunato o sfortunato delle azioni e delle omissioni umane (benché lo lascino sperare in conformità al desiderio). Ma per ciò che si ha da fare per rimanere nel tracciato del dovere (secondo regole di sapienza), e quindi per lo scopo finale, la ragione ci fa ovunque lume con sufficiente chiarezza." (Ak VIII, 370, corsivo mio)
Per Kant la dottrina del diritto (Rechtslehre) è il compendio (Inbegriff) delle leggi per le quali è possibile una legislazione esterna. Si divide in:
dottrina del diritto positivo, quando ha a oggetto la legislazione effettiva. Questa dottrina prende il nome di giurisprudenza (Rechtsklugheit) quando il giurista (iurisconsultus) è allo stesso tempo giurisperito, cioè conosce le leggi anche nella loro applicazione ai casi empirici;
scienza del diritto, quanto non ha a oggetto né il diritto positivo, né l'applicazione ai casi empirici. La conoscenza sistematica della dottrina del diritto naturale (ius naturae o diritto secondo ragione) rientra nella scienza del diritto, sebbene debba anche fornire i princípi immutabili per ogni legislazione positiva.
Nella Critica della ragion pura (Ak III 79) Kant scrive che la domanda "Che cos'è la verità?" è stata usata fin dall'antichità per mettere in difficoltà i logici, costringendoli o a una diallele - cioè a una definizione che, per essere vera, deve presupporre che il suo oggetto sia già noto - o alla confessione della loro ignoranza. 57 Un ruolo simile, per i giuristi, è giocato dalla domanda "Che cos'è il diritto?". È possibile darle una risposta che non sia una tautologia o un rinvio alle norme particolari di un paese particolare?
Per i giuristi è facile rispondere alla domanda "Quid iuris?" indicando, positivisticamente, le leggi in vigore in un certo luogo o in un certo tempo. Una simile risposta, però, non dice affatto quale sia il criterio universale che ci permette di conoscere lo iustum et iniustum, cioè il giusto e l'ingiusto in senso giuridico. Una dottrina del diritto solo empirica è senza cervello, come la maschera tragica della favola di Fedro: raccoglie molte leggi vigenti ora o in passato, ma non sa chiarire perché sono leggi e perché sono giuste.
In una prospettiva giusnaturalistica le questioni di che cosa sia lo ius e di che cosa sia lo ius-tum tendono a convergere, perché il diritto secondo ragione è anche il fondamento che rende giusta - e quindi giuridica - la legislazione positiva. 58 Stando così le cose, non è possibile definire il diritto sulla base delle leggi esistenti: bisogna cercare nella ragione, a priori, il criterio in virtù del quale le diciamo ius-tae.
La definizione di Kant presuppone un'obbligazione giuridica costruita sul diritto in quanto parte della morale e si ottiene con i seguenti passi:
il diritto riguarda esclusivamente il rapporto esterno e pratico fra le persone, in quanto le loro azioni possono influenzarsi a vicenda; si occupa, in altre parole, solo delle azioni esteriori di ciascuno - non della vita interiore - quando possono interferire con le azioni altrui;
il diritto si occupa del rapporto dell'arbitrio di ciascuno con quello di ogni altro, lasciando fuori bisogni e aspirazioni. Il suo carattere esterno, in altri termini, limita il suo ambito alla facoltà che ci fa passare all'azione;
negli arbitrii in reciproco rapporto, il diritto non considera la materia, ossia gli scopi personali di ciascuno, ma solo la forma, ossia la libertà. Detto più semplicemente, al diritto non interessa se, per esempio, in una transazione commerciale una parte non tragga profitto da una certa merce che aveva acquistato da me; gli interessa, però, sapere se la transazione sia avvenuta liberamente, senza essere viziata da truffe e ricatti. Nel primo caso, la controversia si dovrebbe dirimere facendo uso della vaga dottrina della felicità; nel secondo, invece, è possibile contare su criteri formali.
La definizione del diritto, pertanto, sarà: il complesso delle condizioni per le quali l'arbitrio dell'uno può associarsi con l'arbitrio dell'altro secondo una legge universale della libertà. In altre parole: data una pluralità di soggetti che agiscono arbitrariamente influenzando, ciascuno, il campo di azione altrui, il diritto è il sistema di regole necessario a coordinarli in modo da garantire a ognuno un uguale spazio di libertà.
È diritto [Recht] ogni azione la quale, o direttamente o per la sua massima, può far coesistere la libertà dell'arbitrio di ognuno con quella di ogni altro secondo una legge universale.
Questa definizione riguarda solo le azioni o le situazioni esterne: se esse sono tali da poter coesistere con la libertà di ognuno secondo una legge universale, cioè una legge che vale allo stesso modo per tutti, allora chi me le impedisce e mi resiste mi fa anche ingiustizia.
Dalla definizione del diritto si può trarre una legge universale:
Agisci esteriormente così che l'uso libero del tuo arbitrio possa coesistere con la libertà di ciascuno secondo una legge universale.
Questa legge impone un'obbligazione, ma riguarda solo un'azione esterna. I soggetti di diritto, quindi, non hanno bisogno di assumerla come massima e di averla come movente, cioè non hanno bisogno di essere eticamente virtuosi: è sufficiente che la osservino, rispettando, anche controvoglia, lo spazio di libertà altrui.
Il giusnaturalismo di Kant non assimila il diritto all'etica. La legge universale del diritto non risponde direttamente alla domanda "che cosa devo fare?" ma si occupa di un altro problema: com'è possibile far convivere una pluralità di esseri razionali ma finiti, che possono avere o no intenzioni etiche, in modo da non ledere ciò che li rende soggetti di etica e di diritto, vale a dire la loro libertà? La questione è di competenza della ragione pratica perché la libertà dell'arbitrio è un suo postulato e non deriva dall'esperienza. E anche la sua soluzione, basata sull'accettazione della limitazione della libertà, nell'idea e anche nel fatto, ma secondo una legge universale, non è costruita sull'esperienza ma sulle esigenze formali della ragione stessa.
La costrizione del diritto, spiega Kant, opera su ciò che ostacola la libertà secondo leggi universali. Non è in contrasto con la libertà in quanto si esercita contro ciò che ingiustamente le resiste. Infatti, se in generale eliminare gli impedimenti a un effetto significa favorirlo, la costrizione, intesa in questo senso ed entro questi limiti, non è logicamente contro, bensì a favore della libertà.
Se il diritto è ius quia iustum, il suo dovere ci obbliga anche secondo coscienza: ma se vogliamo considerarlo solo in senso stretto, cioè senza connessione all'etica, dobbiamo mettere fra parentesi la moralità delle intenzioni e guardare solo ai suoi aspetti specifici: l'azione esterna e la costrizione secondo una legge universale della libertà.
Per questo motivo non possiamo rappresentare il diritto inteso in senso stretto come composto da due parti, vale a dire l'obbligazione secondo una legge e la facoltà, per colui che vincola un altro con il suo arbitrio, di costringerlo a eseguirla. Se lo interpretassimo in questi termini, infatti, costruiremmo una gerarchia etica fra soggetti: qualcuno, colui che costringe, sarebbe dotato di una sorta di potestà pedagogica sul costretto, che non è in grado di rendersi conto da sé dell'obbligatorietà della legge. 59
Il diritto è orientato all'azione e non all'intenzione. Per questo si può rappresentare più correttamente come la connessione della costrizione universale e reciproca con la libertà di ognuno: le azioni sono assicurate tramite obbligazioni di cui gli obbligati devono essere consapevoli. Ma per garantire che siano eseguite, è sufficiente costruire il diritto come costrizione.
Un creditore che esige i soldi che gli spettano da un debitore applica il diritto in senso stretto quando non si preoccupa di convincere la controparte che il pagamento del debito è un obbligo imposto dalla sua stessa ragione, ma pretende semplicemente il denaro dovuto, tramite una coercizione che non insiste sul suo animo, ma esclusivamente sulla sua azione. Per il diritto in senso stretto un debitore non è eticamente colpevole e non è tenuto a cospargersi il capo di cenere deplorando la sua presunta colpa: deve soltanto restituire al suo creditore, se può, il denaro che ha preso in prestito.
Il diritto di Kant - in parole più semplici - non è uno strumento paternalistico o tecnocratico che chi è più evoluto moralmente usa per educare gli altri, ma uno strumento per garantire a tutti un pari spazio di libertà tramite una pari costrizione. La presenza della costrizione universale e pervasiva garantisce per costruzione l'uguaglianza dei soggetti di diritto. La legge giuridica, infatti, dice a tutti: non voglio e non posso operare sulle vostre intenzioni, ma solo sulle vostre azioni. La mia costrizione non serve per convertirvi, ma solo per garantire che un'azione esterna sia fatta od omessa.
Per Kant, il principio E non è propriamente un'integrazione alla definizione, ma la costruzione del concetto di diritto, vale a dire la sua esibizione in una intuizione pura a priori. 60 Il geometra illustra il concetto di triangolo valendosi dello spazio, forma dell'intuizione pura, e costruendo spazialmente la figura geometrica in questione: in questo modo rende possibile usarlo anche nell'esperienza, per esempio per descrivere un'aiuola di forma triangolare. Una costruzione analoga è quella del concetto del diritto come una costrizione perfettamente reciproca sotto leggi universali, in virtù della quale possiamo usare la forma del diritto per discutere delle questioni che incontriamo nell'esperienza.
Chi esercita o si avvantaggia della coercizione è esposto alla tentazione di sentirsi migliore - più nobile, più ricco, più intelligente, più buono - di coloro che costringe, e dunque di immaginarsi autorizzato a costringere senza essere costretto: 61 la costruzione geometrica del diritto è un antidoto che aiuta a resistere a questa tentazione. La geometria euclidea, infatti, lavora con punti privi di dimensione e con linee senza spessore e ne costruisce figure che sono pure forme, senza colore e senza profumo; il diritto analogamente costruito è un sistema di rapporti fra soggetti liberi e uguali, senza nessuna qualità sociale e culturale. Tali rapporti sono paragonabili a linee che collegano agenti puntiformi, uno uguale all'altro: non si può dunque attribuire a chi costringe nessuna proprietà speciale in grado di esimerlo dall'essere costretto, se si trovasse nella medesima situazione.
Immagine riprodotta, con alcune modifiche, da Attilio Frajese e Lamberto Maccioni (a cura di), Gli Elementi di Euclide, Torino, Utet, 1970, p. 112.
Nella proposizione 22 del primo libro degli Elementi, Euclide propone di costruire un triangolo con tre segmenti uguali a tre segmenti dati, nel rispetto del requisito, dimostrato nella proposizione 21, che la somma di due di questi, comunque presi, sia maggiore del segmento rimanente.
Euclide, come si vede nella figura a fianco, risolve il problema stendendo i tre segmenti a, b, c, la cui lunghezza rispetta il requisito della disuguaglianza triangolare della proposizione 21, lungo la retta DE e costruendo su ciascun estremo F e G del segmento intermedio b due circonferenze secanti aventi raggio rispettivamente a e c, per ottenere un triangolo unendo ciascun estremo del segmento b, tramite ciascun raggio delle circonferenze, al punto K.
Euclide adotta questa procedura - non sarebbe più semplice provare a formare un triangolo con tre listelli di legno di lunghezza appropriata? - perché si propone di costruire una figura triangolare esclusivamente sulla base dei termini, dei postulati e delle nozioni comuni della sua geometria, ossia, come avrebbe detto Kant, a priori e non a posteriori. Non vuole, cioè, scoprire delle forme nell'esperienza: vuole costruire col pensiero uno spazio strutturato esclusivamente secondo le regole di composizione e di dimostrazione di quel sistema ipotetico-deduttivo che è la sua geometria.
"La conoscenza filosofica" - scrive Kant nella Critica della ragion pura - "è conoscenza razionale per concetti. La conoscenza matematica è conoscenza razionale per costruzione di concetti". Quest'ultima opera rappresentando l'intuizione, ma a priori. In altre parole, quando costruisco, per esempio, un triangolo, produco qualcosa che ha la struttura spaziale della conoscenza immediata, ma la cui forma è costruita nel pensiero e non è oggetto d'esperienza.
La costruzione di concetti si applica anche al diritto perché i punti delle cui relazioni esso si occupa - vale a dire gli esseri umani - possono essere pensati come soggetti di diritto solo postulandone la libertà: per questo definire giuridicamente i loro rapporti esterni è paragonabile a risolvere un problema di geometria. Agenti giuridici e termini geometrici, infatti, si collocano in uno spazio indipendente dall'esperienza perché strutturato secondo forme che sono pensate e non ritrovate nei sensi. E proprio come una dimostrazione di un teorema può aver luogo solo entro il sistema della geometria, così la deduzione di un diritto può aver luogo solo entro un sistema giuridico. In altre parole, i diritti - proprio come i punti, le rette e i piani di Euclide - non si trovano per strada, ma sono costruzioni della nostra mente concepite per ordinare e ridurre sotto modelli oggetti d'esperienza i quali, di per sé, sono infinitamente più complessi e sfuggenti.
Il diritto in senso stretto è connesso alla facoltà di costringere. Si è anche pensato, però, a un presunto diritto in senso lato in cui questa facoltà non può essere stabilita da una legge. Le sue specie sono due:
equità: diritto senza costrizione
diritto di necessità: costrizione senza diritto.
Per Kant in questi casi non si può propriamente parlare di diritto lato, cioè non rigoroso, ma solo di un diritto dubbio su cui nessun giudice può decidere. Anche per questo l'appendice all'introduzione alla dottrina del diritto che affronta la questione si intitola "diritto equivoco".
Quando viene invocata nel diritto, l'equità non ha nulla a che vedere col dovere etico di essere benevoli e generosi. Chi la richiede in un giudizio la esige come suo diritto, contro l'applicazione rigorosa della legge (summum ius, summa iniuria). Per Kant, però, pur essendo questa pretesa giuridica, mancano le condizioni necessarie in base alle quali il giudice può determinare la soddisfazione della sua pretesa. Eccone alcuni esempi:
in un'impresa commerciale istituita su un contratto che prevede la divisione in parti uguali, un socio che ha contribuito più degli altri ma ha perso di più, chiede, come compensazione, di avere di più della parte che gli spetta;
un domestico che aveva pattuito un salario all'assunzione, vedendoselo fortemente eroso dall'inflazione, chiede di ricevere un aumento per compensare la perdita. 62
Kant chiama l'equità "una divinità muta che non può essere ascoltata" perché in casi come questi il giudice, che deve dirimere le dispute interpretando le disposizioni del contratto, non può trovarvi nessun criterio in base al quale determinare rigorosamente la soddisfazione di simili richieste. Un tribunale dell'equità sarebbe dunque contraddittorio, perché il suo giudice si troverebbe a rifiutare la costrittività delle norme date, per imporne altre non rinvenibili in nessuna fonte del diritto. Si troverebbe, cioè, a dover inventare, rispondendo al tribunale della sua coscienza, una norma coercitiva che non esiste, e a dover negare i diritti stabiliti nel contratto, pur essendo gli unici esternamente accertabili dal tribunale del diritto.
Il giudice può inventare una norma che non c'è solo quando dispone di diritti propri: un caso esemplare può essere quello in cui la corona, vale a dire lo stato di cui il giudice è funzionario, si fa carico dei danni subiti da qualcuno al suo servizio, anche se a rigore costui ha accettato il rischio nel momento in cui ha firmato il relativo contratto. In generale però un tribunale civile, che deve applicare la legge esistente, non può decidere su qualcosa che può essere stabilita come ingiusta solo dal tribunale della coscienza.
Se prendiamo in mano un manuale recente di diritto privato, molto probabilmente troveremo una trattazione dell'equità simile a quella, giuspositivista, contenuta nel testo qui a fianco: 63 l'equità è una giustizia del caso singolo, che sfugge alle norme oggettive del diritto positivo e che riposa su interessi e valori diversi da quello della certezza del diritto. Per questo, fatte salve le marginali eccezioni previste dalla legge, l'equità merita di essere limitata: è meglio che l'applicazione del diritto sia percepita come ingiusta, ma sia prevedibile da parte dei cittadini, piuttosto che, per apparire più giusta alla coscienza comune, finisca per dipendere dalla soggettività del giudice.
Kant sembra vicino a queste posizioni quando sostiene che il giudice, pur essendo convinto che l'applicazione stretta delle norme contrattuali sia ingiusta, non può inventare un diritto che non c'è, ma se ne distingue per almeno due motivi:
la rivendicazione di chi si appella all'equità è giuridica, ossia, giusnaturalisticamente, giusta, cioè riconducibile a una legge universale e non limitata al caso singolo;
tanto è vero che quando un giudice agisce come funzionario dello stato, disponendo dei diritti di quest'ultimo, può dare soddisfazione a chi si appella all'equità.
Queste circostanze indicano che a Kant non interessa gran che la certezza del diritto garantita da un rigido sistema di norme "oggettive" imposte dallo stato. Perché, dunque, tratta l'equità come una divinità muta? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo prendere in mano un altro manuale, questa volta di storia del diritto romano.
Nella tarda Repubblica – soprattutto in Servio – si affermò anche una propensione metodologica, stimolata da filosofi e retori, che ebbe poi grande sviluppo nel diritto classico: il ricorso all'equità. In senso generico, per aequitas si intende il principio di eguaglianza, che talora dev'essere temperato dal rispetto per la differente dignitas delle persone. «Il diritto è l'equità posta in essere per coloro che appartengono alla stessa comunità politica, affinché ciascuno ottenga il suo», diceva Cicerone nella Topica (2.9). Ma per poter realizzare l'equità, bisogna anche rifuggire da un'applicazione troppo rigida e formalistica del diritto, che lo metterebbe in contrasto con interessi e valori morali diffusi, rendendolo inapplicabile. Perciò, in un senso più specifico, s'intende per equità la ricerca di una “giustizia del caso concreto”, capace di proporre correzioni realistiche alle regole del diritto civile, senza stravolgerne i principi.
In particolare, Mucio e Servio si dimostrarono consapevoli della necessità di rinnovare il diritto della società contadina arcaica, sollecitati dallo sviluppo dei rapporti di mercato. «Summum ius summa iniuria» (= il diritto assoluto è un'assoluta ingiustizia) affermava Cicerone nel De officiis. Il diritto doveva essere aderente ai bisogni sociali, e quindi improntato alla ragionevolezza e al sentimento di giustizia del vir bonus (= uomo di retti costumi). Intesa in questo senso, l'equità fu per secoli il principio ispiratore dell'attività dei magistrati, avvocati, giudici e giuristi, ed è rimasta un elemento essenziale della nostra cultura giuridica. 64
Aequitas significa letteralmente "uguaglianza": essa, però, nella tradizione del diritto romano qui descritta, produce una giustizia del caso concreto tutt'altro che ugualitaria, perché in grado di tenere conto del prestigio e della posizione (dignitas) delle persone.
La giustizia romana dell'equità è molto diversa da quella fondata sul diritto in senso stretto, perché riconosce implicitamente ed esplicitamente delle gerarchie morali e sociali sulla cui base modulare l'interpretazione della legge. Su questo sfondo, si comprende perché Kant limita l'equità: non tanto perché abbia un culto positivistico della certezza del diritto, ma perché è consapevole del rischio paternalistico e oligarchico implicito in una giustizia i cui giudici possano inventare e negare norme coercitive, perfino formalmente generali e astratte, indipendentemente da quelle esplicitamente stabilite.
Il presunto diritto di necessità è diverso da quello che oggi chiameremmo legittima difesa: non è infatti un diritto a ripagare con la stessa moneta chi mi sta aggredendo minacciando la mia vita, ma la facoltà di sopprimere, per salvarmi, qualcuno che non mi ha fatto nulla di male. Un simile comportamento è a rigore giuridicamente ingiusto: nessun diritto compatibile con una legge universale della libertà può autorizzarmi a trattare la mia vita come talmente speciale da permettermi di uccidere un innocente per conservarla.
Un atto di autoconservazione violenta - come quello del naufrago che scaccia il compagno dalla tavola a cui è aggrappato 65 - rimane dunque giuridicamente colpevole. Quello che lo rende equivoco non è la sua colpevolezza, che è chiara, ma la sua non perseguibilità o impunibilità. Infatti, perfino se si minacciasse la pena capitale, il timore della sanzione non sarebbe un deterrente sufficiente di fronte al rischio immediato di morte. Lo stato di necessità, dunque, non ha legge solo dal punto di vista della sua perseguibilità, ma certamente non può trasformare un atto ingiusto in un atto legittimo.
Kant conclude che a rigore, sul piano del diritto oggettivo, non esiste nessuna ambivalenza. L'equivoco nasce dalla confusione dei fondamenti oggettivi del diritto, con quelli soggettivi della sua applicazione, cioè con le situazioni in cui ci troviamo ad applicare le norme, che ci inducono o a pretendere più del nostro diritto o a disconoscere violentemente il diritto altrui.
Kant non tratta lo ius necessitatis come un diritto. bensì come una condizione in cui il diritto in senso stretto è impotente. Confrontiamo la sua posizione con quella, molto diversa, esposta in un manuale recente di diritto penale positivo, riportata qui a fianco: l'esclusione della punibilità di un delitto se commesso in stato di necessità si basa su un bilanciamento di "beni" intesi in senso materiale e non in senso formale. Così, l'attrice che corre nuda in strada per sfuggire a un incendio - per ripetere l'esempio bizzarro proposto dagli autori del testo - non è punibile ai sensi dell'articolo 529 del codice penale italiano perché il valore della vita supera quello del comune senso del pudore.
Potremmo pensare che, in quanto si conclude comunque a favore della non punibilità, il modo in cui si arriva sia indifferente e che Kant scelga la via tortuosa dello ius aequivocum solo perché il suo impianto teorico non gli permette di soppesare "beni" dipendenti implicitamente o esplicitamente da una qualche teoria oggettiva della felicità. Ma basta sperimentare le due vie su un famoso problema morale, noto in inglese come the trolley dilemma, per rendersi conto che la loro differenza è molto più significativa di quanto sembri.
Il dilemma, nella sua forma più elementare, propone di immaginarsi nella posizione di un tranviere, alla guida di un veicolo che non può fermare, il quale, in prossimità di uno scambio, vede che sul binario che sta per imboccare ci sono cinque persone, mentre sull'altro soltanto una. Che cosa deve fare? Deviare il tram per uccidere una persona e salvarne cinque? Oppure non intervenire affatto, così da sottrarsi alla responsabilità di una scelta intenzionalmente omicida?
Chi aderisse alla teoria del bilanciamento dei beni risponderebbe, come gli utilitaristi, che il tranviere deve deviare e invocare lo stato di necessità, perché cinque vite sono più di una; Kant invece, pur ammettendo che il tranviere non è punibile, risponderebbe che entrambe le scelte sono ingiuste, perché rimane illegittimo sacrificare qualsiasi agente morale a favore di altri, indipendentemente dal loro numero. Possiamo, infatti, uccidere una persona per salvarne cinque o cinque persone per salvarne una solo sulla base di leggi particolari, incapaci di rispettare tutti gli esseri razionali allo stesso modo.
Il dilemma del tram, nato come un esperimento mentale, è oggi diventato un problema ingegneristico: come programmare il comportamento di un'automobile a guida automatica che si trovasse di fronte al dilemma fra andare a sbattere su un muro uccidendo il passeggero e travolgere una scolaresca di trenta bambini con le loro maestre? I bilanciatori di beni non avrebbero difficoltà a rispondere che l'auto deve sacrificare il passeggero - con la sola controindicazione, mercantile, che ben pochi sarebbero disposti ad acquistare un mezzo di trasporto programmato per ucciderli. Kant, invece, risponderebbe che è in radice ingiusto progettare un sistema che comporti simili dilemmi: se si vogliono produrre veicoli a guida autonoma bisogna escogitare sistemi - per esempio corsie riservate inaccessibili a pedoni e ciclisti - che siano ragionevolmente sicuri per tutti, così da escludere il ricorso all'omicidio automatico. Il soggetto morale - qualsiasi soggetto morale - in quanto fine e non mezzo non può essere oggetto di calcolo.
Kant suddivide i doveri giuridici sulla base di una reinterpretazione delle tre formule del giurista romano Domizio Ulpiano riportate in Digesto 1.1.10. Questa reinterpretazione si comprenderà meglio in combinato disposto con il successivo §41. Per ora è sufficiente anticipare che le tre formule del giureconsulto antico costruiscono una progressione dallo iustum formale, al suo sviluppo in norme particolari nelle relazioni con gli altri, fino alla costruzione del sistema di garanzie sociali che rendono possibile applicare queste norme imparzialmente. Il diritto secondo ragione di Kant non nasce, storicamente, nel vuoto, ma sull'esperienza della tradizione europea di un diritto giurisprudenziale che visse molto più a lungo dell'entità politica che l'aveva imposto grazie alla riscoperta medioevale del Corpus iuris civilis dell'imperatore bizantino Giustiniano e al lavoro degli studiosi. 66
Le tre formule di Ulpiano sono le seguenti:
Honeste vive (sii una persona retta). Per Kant il concetto di honestas iuridica va sviluppato tramite la seconda formulazione dell'imperativo categorico: "non fare di te un mero mezzo per gli altri, ma sii per loro allo stesso tempo un fine". Il dovere di affermare in ogni relazione con gli altri il proprio valore in quanto essere umano verrà successivamente chiamato obbligazione derivante dal diritto dell'umanità nella nostra persona. Condizione formale del diritto secondo ragione è che il soggetto di diritto si faccia riconoscere nella sua dignità di essere razionale libero (lex iusti).
Neminem laede: non fare torto a nessuno, anche se dovessi sciogliere per ciò ogni relazione con gli altri ed evitare la società (lex iuridica).
Suum cuique tribue: entra se non puoi evitarlo in una società civile nella quale a tutti sia riconosciuto il proprio. Kant spiega che la traduzione letterale "dai a ciascuno il suo" è assurda perché a nessuno può essere dato quello che ha già. Va quindi letta come "entra in una situazione in cui a ognuno possa essere assicurato il mantenimento del suo, rispetto a ogni altro" (lex iustitiae).
Kant annota che le tre formule dividono il sistema dei doveri giuridici in doveri interni, doveri esterni, e doveri che contengono la derivazione, per sussunzione, dei doveri esterni dal principio di quelli interni. Secondo il §41 la lex iusti dice che cosa è internamente giusto [recht] dal punto di vista formale; la lex iuridica che cosa, come materia, è anche esternamente legale, cioè su che cosa si ha un possesso giuridico (rechtlich); la lex iustitiae in che cosa la sentenza di un tribunale è conforme alla legge (Rechtens).
Per comprendere 67 che cosa vuol dire Kant conviene procedere a ritroso:
La lex iustitiae è il diritto applicato dalla sentenza di un tribunale. Perché vi sia questo diritto, occorre che gli esseri umani abbiano concluso il pactum unionis civilis e istituito la società civile. 68 Per fare questo occorre uscire dallo stato di natura che è privo di garanzie giurisdizionali: ciascuno, in esso, ha titolo a essere giudice in causa propria ed è dunque affetto da un conflitto di interessi strutturale. Il terzo fra i doveri giuridici, l'uscita dallo stato di natura, mira a garantire le condizioni per le quali sia possibile assicurare a ciascuno quanto gli è giuridicamente dovuto (suum cuique tribuere), in virtù della sentenza di un giudice terzo fra le parti.
Quando il giudice emette una sentenza, compie un'operazione chiamata sussunzione, cioè riconduce un caso particolare al principio universale previsto dalla norma. La sussunzione ha luogo con un sillogismo, nel quale la premessa minore funge da raccordo fra il particolare e il generale.
Premessa maggiore: "tutti gli A sono [o devono essere] B"
Premessa minore: "a è A"
Conclusione: "quindi a è [o deve essere] B" 69
Nel caso in questione, il ruolo della premessa maggiore - dice Kant - è svolto dal "principio dei doveri interni" e il ruolo della conclusione dai doveri esterni: l'elemento di raccordo è l'accertamento giudiziario che riconduce un caso particolare sotto l'ombrello della norma universale del principio dei doveri interni. In questo modo si ottengono dei doveri esterni, cioè quelli concretamente imposti dalla sentenza giudiziaria.
I doveri esterni presi separatamente dalla lex iustitiae costituiscono la lex iuridica, a cui corrisponde la formula neminem laede. Se l'unica differenza rispetto alla lex iustitiae è l'assenza della sentenza, è chiaro che questi doveri consistono in azioni concrete che si sarebbe tenuti a compiere o a omettere per evitare di fare torto a qualcuno. Kant inserisce nella formula di Ulpiano l'opzione dell'abbandono della società perché presuppone, qui, una società allo stato di natura, non ancora civile. In una simile società ciascuno è ancora giudice in causa propria ed è sempre presente il rischio che le controversie siano risolte, infine, con la forza e non con il diritto, facendo torto a qualcuno. Per questo motivo una persona onesta può sentirsi in dovere di allontanarsene.
La lex iusti offre i principi universali da cui discendono lex iuridica e lex iustitiae; essa consiste in doveri interni. Kant ha definito lo iustum come atto conforme al dovere quando il dovere è una legge esterna. I doveri della lex iusti, quindi, non possono essere interni nel senso che sono doveri di virtù connessi a un'intenzione etica e non di diritto. Honeste vive non può significare "abbi buone intenzioni". Il § 41 aiuta a risolvere l'enigma: i doveri della lex iusti sono interni perché sono formali, cioè non si sono ancora estrinsecati in norme che impongono azioni a cui si possa essere costretti tramite sanzioni penali, pur costituendone i princípi. Per esempio: pacta sunt servanda appartiene alla lex iusti, le norme che vincolano le parti che concludono effettivamente un contratto sono lex iuridica e la sentenza di un giudice civile che dirime una controversia contrattuale è lex iustitiae.
L' honeste vive non è un principio etico, ma rimane un principio morale: essere soggetti di diritto significa riconoscere che la propria libertà ha tanto valore quanto quella di ogni altro. Significa rifiutare di ridursi a mezzi al servizio di scopi posti da altri. Significa, in una parola, rifiutare di farsi trattare come schiavi. 70 Chi è fine in se stesso, infatti, è molto di più di un particolare nei progetti altrui: è in se stesso un progetto o - meglio - in quanto libero è il suo proprio progetto.
Mentre la nostra esposizione, per motivi didattici, si è sviluppata a ritroso, quella di Kant procede in avanti: i doveri di diritto sistematicamente intesi hanno origine nel giusto ma devono realizzarsi diventando prima doveri giuridici e infine concreta giustizia, in quanto non sono fatti solo per essere pensati. Pretendere di vivere in una società giusta non è da sognatori o da sovversivi: è un dovere di chiunque rispetti se stesso.
Domizio Ulpiano, giurista romano tardo-classico, influenzato da stoicismo e neoplatonismo, ebbe un'eccezionale autorità nell'epoca in cui fu compiuta la codificazione giustinianea, 71 tanto è vero che un buon terzo del Digesto è composto da suoi frammenti. Citarlo, per chi vuole mostrare la sua connessione, come Kant, alla tradizione del diritto romano, è dunque una scelta pressoché obbligata.
E però fra Kant e Ulpiano sono rintracciabili delle consonanze che meritano di essere rese esplicite:
il valore effettivamente e non solo retoricamente giuridico del diritto di natura;
la convinzione che il diritto di natura governi ambiti sottratti al potere politico ed economico; 72
la convinzione che il vero giurista - il vero scienziato del diritto - sia anche filosofo
Certamente, Kant non dispone più di una metafisica che gli consenta di fondare la sua legge sulla legalità intrinseca a una natura divina e razionale. E però, allo stesso tempo, la sua lotta per mantenere la continuità con una tradizione antica che era sopravvissuta al potere che l'aveva prodotta e che, perfino quando fu al servizio di un impero come quello romano, riconosceva norme politicamente ed economicamente indisponibili, 73 è costante ed evidente.
Il diritto come dottrina sistematica si divide in:
diritto di natura (Naturrecht) fondato solo su princípi a priori;
diritto positivo o statutario, derivante dalla scelta di un legislatore.
Il diritto inteso come come facoltà morale (titulus) di obbligare gli altri si divide però in:
diritto innato, che spetta a ciascuno indipendentemente da ogni atto giuridico (mio e tuo interno); 74
diritto acquisito, che segue a un atto giuridico (mio e tuo esterno).
Per Kant il diritto innato, che appartiene a ogni essere umano 75 semplicemente in virtù della sua umanità, può essere ridotto alla libertà, che qui definisce, in modo giuridico, come indipendenza dall'arbitrio necessitante altrui, in quanto in grado di coesistere con la libertà di ogni altro secondo una legge universale. Nel principio della libertà innata sono comprese, perché sono semplicemente altri modi di dire la stessa cosa:
l'uguaglianza innata, cioè l'indipendenza per la quale non siamo obbligati dagli altri più di quanto li possiamo reciprocamente obbligare, che discende immediatamente dal carattere formale della libertà e dall'universalità della legge;
la qualità di ciascuno di essere suo proprio signore (sui iuris), cioè capace di agire legalmente senza dipendere da decisioni altrui;
l'integrità, cioè l'aver titolo, prima di aver commesso atti giuridici che depongono per il contrario, a essere considerato una persona giuridicamente integra (iusta); 76
la facoltà di fare agli altri tutto ciò che non riduce ciò che è loro proprio in senso giuridico, purché se ne vogliano curare. Kant adduce l'esempio della semplice comunicazione del proprio pensiero e perfino della menzogna, perché dipende dagli altri crederci o no.
In questo testo si sostiene che, perché la menzogna sia giuridicamente perseguibile, non è sufficiente un discorso insincero, a cui l'interlocutore resta libero di credere o no: occorre che la falsificazione sia volta a privarlo di quanto gli spetta di diritto. Kant presenta, come esempio, il caso di un truffatore che ottenga, da un'altra persona, qualcosa che non gli sarebbe dovuto facendole credere con l'inganno (falsiloquium dolusum) di avere con lei un vincolo contrattuale: mendacium est falsiloquium in praeiudicium alterius. 77
La distinzione fra diritti innati e acquisiti è stata introdotta per fare chiarezza sull'onere della prova nelle dispute sui diritti acquisiti relative a diritti dubbi oppure, accertato il diritto, a fatti dubbi. Chi rifiuta l'obbligazione può appellarsi sistematicamente al proprio diritto innato, facendo quindi ricadere sull'altra parte l'onere di provare la sua pretesa di avere un diritto acquisito nei suoi confronti. In altri termini, è proprio grazie al diritto innato che onus probandi incumbit actori.
I (239). I doveri di virtù (officia virtutis) si distinguono dai doveri di diritto (officia iuris) perché non possono essere imposti da una legislazione esterna.. Essi, infatti, richiedono l'adesione a un fine, vale a dire un'intenzione, che è solo un atto interiore il quale non può essere imposto dall'esterno. La minaccia di una sanzione può certo obbligare qualcuno a compiere un'azione osservabile che può andare in una certa direzione, ma non ad assumere questa direzione come una sua propria intenzione nell'interiorità della sua coscienza.
Perché la morale si occupa in primo luogo di doveri - si pensi per esempio al De officiis di Cicerone - e non di diritti, dal momento che doveri e diritti sono in reciproca corrispondenza? Kant connette il primato dei doveri all'unica via attraverso la quale conosciamo la nostra libertà, vale a dire l'imperativo morale. Anche per Kant, come per Socrate, scopriamo la nostra libertà soltanto in un limite.
II. La dottrina dei doveri rappresenta l'essere umano sotto un duplice aspetto:
homo phaenomenon: è l'essere umano così come appare nella nostra esperienza sensibile, soggetto alle determinazioni naturali;
homo noumenon: è l'uomo in quanto capace di libertà, e dunque meramente sovrasensibile e intelligibile
Il diritto, che si occupa esclusivamente di azioni esterne, opera sull'homo phaenomenon. L'homo noumenon, invece, è di competenza dell'etica, che si occupa dei fini. E tuttavia oggettivamente i doveri di diritto sono sovraordinati a quelli di virtù perché la libertà che i doveri di diritto proteggono è intelligibile e deve essere attribuita per postulato al soggetto morale, indipendentemente dai fini che gli capita di avere. I doveri di diritto, in altre parole, presuppongono e tutelano non l'homo phaenomenon, bensì l'homo noumenon.
Dovere verso se stessi | Dovere perfetto | Dovere verso gli altri | ||
1. Diritto dell'umanità nella nostra propria persona | - di diritto | 2. Diritto degli uomini | ||
Dovere: | ||||
3. Fine dell'umanità nella nostra propria persona | - di virtù | 4. Fine degli uomini | ||
Dovere imperfetto |
I doveri di diritto concernono le azioni e non le intenzioni: riguardano, cioè, solo quello che facciamo e non i fini per i quali scegliamo di farlo. Per questo essi sono definibili senza latitudine, e meritano il nome di "doveri perfetti". 78 I doveri di virtù hanno a che vedere con i fini e non con le azioni: poiché uno stesso fine può essere perseguito con più azioni diverse, meritano il nome di "doveri imperfetti" in quanto non s'identificano con azioni univocamente definite. 79 L'univocità delle azioni oggetto dei doveri perfetti, in un sistema a priori, è dovuta alla circostanza che tali doveri tutelano la personalità morale dell'essere umano, vale a dire la sua libertà postulabile a priori, senza la quale nessuna morale - e dunque anche nessun diritto - sarebbe possibile.
1. Relazione giuridica dell'essere umano con esseri che non hanno né doveri né diritti | 2. Relazione giuridica dell'essere umano con esseri che hanno doveri e diritti |
3. Relazione giuridica dell'essere umano con esseri che hanno solo doveri | 4. Relazione giuridica dell'essere umano con esseri che hanno solo diritti |
Mentre lo schema precedente classificava i doveri in quanto oggetto della metafisica dei costumi, questo ulteriore schema prende in considerazione i soggetti, per stabilire con quali soggetti possiamo istituire una relazione giuridica.
Nel riquadro 1 non c'è relazione giuridica perché i suoi soggetti sono entità prive di ragione che non possono né obbligare né essere obbligati.
Si può propriamente parlare di relazione giuridica solo nel riquadro 2: qui, davanti a noi, abbiamo un soggetto portatore di diritti e doveri, il quale dunque, come noi, può obbligare ed essere obbligato.
Il riquadro 3 ci metterebbe di fronte a schiavi e servi della gleba, con i quali la relazione giuridica sarebbe asimmetrica: relazioni di questo genere sono esistite nel diritto positivo, ma Kant ne esclude il carattere giuridico perché incompatibile con il diritto secondo ragione.
Nel riquadro 4 avremmo una relazione con Dio, che ha solo diritti e nessun dovere perché la sua volontà è santa e non subisce la legge morale come un imperativo. Non ci può essere un dovere giuridico nei confronti di Dio perché sarebbe un dovere trascendente, cioè al di sopra delle nostre capacità cognitive: Dio, infatti, è qualcosa che la ragione pensa come un'idea, ma che non può trovare nessuna incarnazione empirica come soggetto esterno che ci obbliga giuridicamente. Dal punto di vista etico, invece, dal momento che il fine è solo pensato e non apprezzabile nel foro esterno, l'idea di Dio può avere un uso appropriato.
Come spiega Kant nella Critica della ragion pura, la dottrina degli elementi ha il compito di fare l'inventario di materiali di cui si serve chi vuole costruire un edificio, che in questo caso è quello della metafisica dei costumi. Gli elementi di questo edificio sono i doveri, che vengono classificati secondo la tassonomia illustrata qui a fianco.
La dottrina del metodo riguarda le condizioni della costruzione dell'edificio edificato con i materiali preparati dalla dottrina degli elementi. Nel caso della metafisica dei costumi, la dottrina del metodo si occupa del modo in cui gli elementi vanno applicati alla prassi. In particolare, la didattica si occupa dell'insegnamento della virtù, mentre l'ascetica 80 del modo in cui debba essere esercitata. Questa costruzione - aggiunge Kant - implica anche una forma architettonica che è l'arte di connettere insieme diversi elementi, con metodi appropriati, per farne un sistema.
Per quanto concerne gli elementi, a quanto già noto lo schema aggiunge, nella sezione dei doveri di diritto, la distinzione fra diritto pubblico e privato. Secondo Kant, il diritto di natura (Naturrecht) o diritto secondo ragione non va diviso in diritto naturale e sociale, bensì in:
diritto naturale (natürliches Recht) o diritto privato; 81
diritto civile (bürgerliche Recht) o diritto pubblico.
La suddivisione fra diritto naturale e sociale, infatti, presuppone che lo stato di natura non sia uno stato sociale - che, dunque, gli esseri umani non siano attualmente dotati di logos prima di esser parte di una società - e dunque non sia in esso concepibile un diritto. La divisione di Kant, invece, presuppone che lo stato di natura sia già sociale e vi sia possibile un diritto, ancorché solo privato, perché gli esseri umani, in quanto razionali, non hanno bisogno della polizia e dei tribunali per interrogarsi sul giusto e sull'ingiusto. 82 Il passaggio al diritto civile, cioè l'istituzione di uno stato (civitas) nel quale sia reso vigente un sistema di leggi pubbliche coercitive serve in questo caso solo per garantire il diritto, e non per istituire la società. Una società, infatti, esiste anche prima del pactum unionis civilis, anche se non è civile 83 perché ciascuno, essendo giudice in causa propria, è strutturalmente in conflitto di interessi e dunque ogni controversia è esposta a risolversi con l'uso, attuale o potenziale, della forza.
[ 57 ] In Ak III 79-80 Kant risponde alla domanda accettando la tradizionale definizione nominale della verità come accordo della conoscenza con il suo oggetto. Una simile definizione, tuttavia, non è in grado di offrire un criterio universale di verità: una conoscenza infatti è vera quando si accorda con l'oggetto a cui si riferisce, distinto dagli altri oggetti, e non semplicemente quando contiene affermazioni che potrebbero valere per qualcosa di diverso da quanto inteso. Rispetto alla materia, cioè ai contenuti di conoscenza in quanto riferiti agli oggetti particolari, è dunque insensato richiedere un criterio di verità che valga indipendentemente da ciascuno di essi. Di contro, dal punto di vista della forma, la logica è in grado di indicare le regole generali del pensiero: questo è un criterio necessario di verità - una asserzione contraddittoria non può infatti essere vera - ma, proprio in quanto formale, non è sufficiente. Infatti una conoscenza potrebbe essere perfettamente coerente e tuttavia completamente sbagliata rispetto all'oggetto a cui si riferisce.
I limiti del formalismo non valgono, invece, nel rispetto pratico - Kant, come vedremo, costruisce una definizione di diritto basata sul postulato della libertà - perché la ragione è in grado di offrire un criterio a priori.
[ 58 ] Il giusnaturalismo si distingue dal giuspositivismo proprio perché il suo diritto è ius quia iustum (diritto perché giusto) e non ius quia iussum (diritto perché imposto).
[ 59 ] Chi ubbidisce in condizione di subordinazione non è partecipe del proprio diritto, per usare l'espressione del §41.'
[ 61 ] Una poesia di Benjamin Franklin (Poor Richard, Courts, 1743), tradotta in italiano qui, offre un'efficace rappresentazione satirica di questa tentazione.
[ 62 ] Rivendicazioni come quelle degli esempi, tuttavia, sono giuridiche perché chi le compie si trova vincolato a contratti che, a causa di condizioni esterne, hanno mutato la sostanza dell'impegno.
[ 63 ] P. Schlesinger, A. Torrenti, Manuale di diritto privato, a cura di F. Anelli, C. Granelli, Milano, Giuffrè, 2019, p. 18.
[ 64 ] G. Giliberti, Storia del diritto romano, Torino,Giappichelli, 2001, p. 193.
[ 65 ] Lo stesso esempio ricorre nel Detto comune nella discussione sul diritto di resistenza.
[ 66 ] Il giurista italiano Alberico Gentili, annoverato fra i fondatori del diritto internazionale moderno, nel suo De jure belli libri tres (I.3), argomentava l'estensione delle norme del diritto romano alle relazioni fra gli stati in questi termini: "Ius etiam, illis perscriptum libris lustiniani, non civitatis est tantum, sed et gentium, et naturae - et aptatum sic est ad naturam universum, ut imperio extincto, et ipsum ius diu sepultum surrexerit tamen, et in omnes se effuderit gentes humanas. Ergo et Principibus stat: etsi est privatis conditum a Iustiniano" ("E il diritto contenuto nei libri di Giustiniano non è di uno stato soltanto, ma anche delle genti e di natura - e si adatta così integralmente alla natura che, estinto l'impero ed esso stesso a lungo sepolto, sarà risorto per diffondersi fra tutti i popoli dell'umanità. Esso dunque vige anche per i sovrani, anche se Giustiniano lo istituì per i privati").
[ 67 ] Si veda B. Sharon Byrd, Joachim Hruschka, Kant’s Doctrine of Right. A Commentary, Cambridge, Cambridge U.P., 2010.
[ 68 ] Kant parla della società civile al singolare perché non saremmo in un vero e proprio stato giuridico se esso valesse internamente in uno o più paesi, ma non in tutti, né, tanto meno, nelle loro relazioni reciproche.
[ 69 ] Gli enunciati fra parentesi quadre sostituiscono "sono" e "è" nell'uso giudiziario del sillogismo.
[ 70 ] Infatti, significativamente, l'astenersi da menzogna e servilismo viene catalogato da Kant fra i doveri perfetti verso se stessi, trattati in una sezione dedicata della Dottrina della virtù perché non possono essere imposti dall'esterno tramite sanzioni penali, ma derivano dall'autocostrizione di chi è signore e non padrone di se stesso.
[ 71 ] Per ulteriori informazioni si rinvia a G. Giliberti, Storia del diritto romano, Torino,Giappichelli, 2001, XVI.5, da cui qui a fianco è riprodotta la p. 265.
[ 72 ] "Il diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli esseri animati. Non è quindi caratteristico solo del genere umano" Digesto 1.1.1.3
[ 73 ] L. Russo, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Milano, Mondadori, 2018, XVIII.
[ 74 ] Anche in questo caso Kant usa l'aggettivo "interno" in un senso coerente a quanto detto a proposito della lex iusti.
[ 75 ] Per rendersi conto che l'umanità di Kant ha poco a che vedere con l'appartenenza alla specie Homo sapiens sapiens basta leggere questo passo della Critica della ragion pratica (1788) [Ak V 87 (trad. it. di F. Capra per Laterza, corsivi miei)]:
L’uomo è bensì abbastanza profano, ma l’umanità nella sua persona, per lui, deve essere santa. In tutta la creazione tutto ciò che si vuole e su cui si ha qualche potere può essere adoperato anche semplicemente come mezzo; soltanto l’uomo, e con lui ogni creatura razionale, è fine in se stesso. Vale a dire esso è il soggetto della legge morale, la quale è santa in virtù dell’autonomia della sua libertà. Appunto per questa autonomia ogni volontà, anche la volontà propria di ciascuna persona, rivolta verso la persona stessa, è condizionata dall’accordo coll’autonomia dell’essere razionale: è limitata cioè dalla condizione di non assoggettare questo essere a nessun proposito che non sia possibile secondo una legge la quale possa derivare dalla volontà dello stesso soggetto passivo; perciò di non adoperare mai questo semplicemente come mezzo, ma, nello stesso tempo, anche come fine. Questa condizione noi la attribuiamo giustamente perfino alla volontà divina rispetto agli esseri razionali nel mondo come sue creature, perché essa si fonda sulla loro personalità, personalità, per la quale soltanto essi sono fini in se stessi.
[ 76 ] Questo principio, oltre a fondare la presunzione d'innocenza del diritto penale, delegittima, in una prospettiva più ampia, la prassi di disconoscere a priori il diritto di qualcuno in virtù dei pregiudizi ispirati da forme di realismo politico o da altre convinzioni antropologiche di origine empirica.
[ 77 ] Nel saggio sul diritto di mentire (Ak VIII 426) Kant avrebbe potuto agevolmente usare questa definizione restrittiva. In questo saggio, però, la via privatistica scelta nella Metafisica dei costumi viene esplicitamente scartata a favore di una posizione più difficile, pubblicistica, vale a dire la tesi che la menzogna, anche quando non danneggia gli esseri umani in carne e ossa delle cui relazioni si occupano i giuristi, è sempre una lesione dell'umanità in generale - delle condizioni strutturali del diritto, che sono di diritto pubblico e non privato.
[ 78 ] La perfezione dei doveri di diritto li rende gerarchicamente superiori ai doveri di virtù - cosa, questa, particolarmente ricca di conseguenze quando l'agente è un uomo politico.
[ 80 ] Anche se oggi si intende prevalentemente in senso religioso, "ascetica" deriva dalla parola greca askesis, che originariamente designava l'esercizio o l' allenamento di un atleta.
[ 81 ] Correttamente Landolfi Petrone suggerisce di distinguere anche nella traduzione Naturrecht da natürliches Recht, in quanto posti tassonomicamente a livelli diversi.
[ 82 ] Si noti che la posizione di Kant è diversa da quella del Rousseau del Contratto sociale (I.8), per il quale il diritto, e anzi la morale in generale, sono introdotti dal patto costituzionale.
[ 83 ] Vale la pena ricordare che nel linguaggio dei giusnaturalisti per società civile s'intende una società organizzata in forma di stato.
Kant esordisce con una definizione apparentemente semplice: il "mio" giuridico (meum iuris) è ciò con cui sono così connesso che l'uso che un altro potrebbe compierne mi lederebbe, cioè mi farebbe torto in senso giuridico.
Posso usare un oggetto solo se ne sono in possesso: nel linguaggio kantiano questo significa che la condizione soggettiva della possibilità dell'uso in generale è il possesso. Ma che cosa si intende per possesso? Se, per esempio, qualcuno sottrae la mia bicicletta che ho lasciato in cortile, ritengo di aver subito un torto in senso giuridico, per quanto la bicicletta, nel momento in mi cui viene rubata, sia lontana dalle mie mani e dunque non si può dire che mi sia stata fisicamente strappata via. Per evitare la contraddizione bisogna dunque distinguere due specie di possesso:
possesso sensibile;
possesso intelligibile.
Il possesso nella prima accezione è possesso fisico di qualcosa che è distinto da me in quanto si trova altrove nello spazio e nel tempo, e che io ho soltanto quando tengo in mano. Il possesso nella seconda accezione insiste invece su un oggetto che è distinto da me solo nel senso che è diverso da me. La relazione fra l'oggetto e me, in questo caso, è intelligibile: ci può essere anche se io non ho l'oggetto in mano. E solo in questo secondo senso si può parlare di un possesso giuridico, senza detenzione. In altri termini: posso dire che chi ha rubato la mia bicicletta lasciata in cortile mi ha leso giuridicamente, anche se non me l'ha strappata di mano, soltanto se il rapporto fra me e la mia bicicletta non è sensibile e empirico, bensì intelligibile e giuridico.
È possibile avere come mio qualsiasi oggetto esterno del mio arbitrio.
Com'è possibile che un oggetto diventi giuridicamente mio? Kant risponde alla domanda con il postulato appena enunciato, che esclude dal diritto la tesi opposta, e cioè che gli oggetti dell'arbitrio siano res nullius, senza padrone. 84
Il postulato giuridico della ragion pratica è qualcosa che si chiede di ammettere come noto per poter legittimare l'appropriazione degli oggetti, perché essa non è derivabile dai meri concetti del diritto. Io posso pensare, infatti, un sistema giuridico perfettamente coerente in cui gli oggetti esterni siano res nullius, ma nel senso che non appartengono né possono appartenere a nessuno. Perché, dunque, devo invece postulare la loro appropriabilità?
Kant risponde in primo luogo specificando che cosa significa oggetto esterno del mio arbitrio. Perché un oggetto sia tale, non basta che io abbia la capacità di usarlo, ma devo averlo preso fisicamente in mio potere con un atto esplicito del mio arbitrio. Ma che succederebbe se non mi fosse giuridicamente lecito usare quello che ho in mano? Che mi troverei a non poter usare degli oggetti che sono fisicamente in mio potere, anche qualora il loro uso fosse compatibile con la libertà di ogni altro secondo una legge universale. La libertà vieterebbe a se stessa di agire su ciò che ha in proprio potere: tutto sarebbe res nullius, nel senso che sarebbe fuori dalla controllabilità da parte di chiunque. Dunque: nel momento in cui penso qualcosa formalmente come in mio potere, sto pensando anche alla possibilità di trattarlo giuridicamente come mio o tuo.
Il postulato dell'appropriabilità è una legge permissiva della ragione in generale, che dà facoltà a chi ha preso possesso per primo di una res nullius di imporre agli altri l'obbligazione di astenersi dall'uso di quell'oggetto dell'arbitrio.
Esclusivamente in virtù di questo postulato possiamo pensare la res nullius come appropriabile e non come intoccabile. Ma il postulato è richiesto solo in quanto la ragion pratica è rappresentata come la ragione di un essere razionale finito e plurale che agisce su un mondo finito attraverso i suoi oggetti. Una ragione puramente contemplativa ne potrebbe fare a meno.
Chi vuole affermare che un oggetto sia suo deve esserne giuridicamente in possesso. Il possesso giuridico, infatti, è la condizione per la quale io posso sostenere che se qualcosa di esterno influenza l'oggetto, questo qualcosa influenza anche me, ledendomi giuridicamente.
Il §4 è dedicato all'esposizione 85 del concetto del mio e del tuo esterno, tramite un elenco dei possibili oggetti dell'arbitrio a cui esso è applicabile. Dall'esposizione il lettore può rendersi conto che il "mio e tuo" comprende una famiglia di rapporti giuridici più ampia di quella dei diritti reali.
Gli oggetti esterni dell'arbitrio, per Kant, possono essere soltanto di tre tipi, in corrispondenza con una delle categorie della relazione.
Categoria | Oggetto dell'arbitrio |
---|---|
Sostanza | a. Cosa corporea fuori di me |
Causalità | b. Arbitrio di un altro per una azione determinata (praestatio) |
Comunanza (reciprocità) | c. Situazione (Zustand) di un altro in rapporto a me |
[ a ] Le categorie della relazione indicano rapporti fra due termini:
[ ab ] Gli oggetti corporei sono alienabili: la persona che gode di diritti reali su di essi può cambiare senza che questi mutino. |
Un oggetto nello spazio fuori di me - dunque una cosa corporea - è mio solo se la posso rivendicare come tale nonostante non ne sia in possesso fisicamente. Una mela è mia quando posso chiamarla "mia" anche se non l'ho in mano. Viceversa, se ho fisicamente in mano una mela che non è mia intelligibilmente, cioè in senso giuridico, chi me la strappasse via con la forza non lederebbe un "mio" esterno, sul quale non ho diritto, bensì solo il "mio" interno, cioè la mia libertà.
La prestazione di qualcun altro può essere giuridicamente mia soltanto se l'impegno di costui nei miei confronti è valido - ossia, nel linguaggio di Kant, io sono in possesso del suo arbitrio - nonostante non sia ancora giunto il momento di mantenerlo. In questo caso la sua promessa rientra fra i miei beni come obligatio activa. 86 La differibilità temporale della prestazione è il contrassegno del vincolo giuridico. Perché possa dire che la titolarità della prestazione è mia, non è sufficiente che sia di fatto svolta, o che la promessa sia contemporanea al momento dello suo adempimento (pactum re initum): 87 occorre che la promessa e il suo adempimento siano temporalmente separati, così da render chiaro che la titolarità giuridica è cosa diversa dal suo godimento empirico. 88
Il terzo senso di "mio" riguarda i rapporti in seno alla famiglia, intesa, come era nell'età preindustriale, come una specie di oikos allargato alla servitù: anche in questo caso una moglie, un figlio o un servo non sono miei perché li ho in casa e sotto il mio controllo, ma solo in quanto ho con loro un rapporto giuridico. Sebbene espressa con linguaggio settecentesco, questa tesi è molto importante, perché implica che i rapporti all'interno della famiglia non vadano trattati come rapporti naturali di sottomissione e di dominio, ma debbano esser considerati nella prospettiva del diritto. Se inoltre si tiene conto che la famiglia di epoca preindustriale era anche l'unità economica fondamentale, la prospettiva di Kant non tocca solo i rapporti fra genitori e figli e fra coniugi, ma anche buona parte del lavoro salariato.
Com'era da attendersi, all'esposizione segue la definizione, che Kant suddivide in due specie:
Definizione secondo il nome (Namenerklärung) o nominale: è la definizione volta a distinguere il concetto da tutti gli altri, dopo un'esposizione determinata e completa.
Definizione secondo la cosa (Sacherklärung): è la definizione in grado di dedurre il concetto dell'oggetto, cioè di conoscerne e legittimarne la possibilità.
Dunque, il "mio" esterno è:
secondo il nome, ciò che sta fuori di me, a proposito del quale impedirmi di usarlo a piacimento sarebbe una lesione in senso giuridico, cioè, ai sensi del principio universale del diritto, una lesione a quella mia libertà che può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una legge universale;
secondo la cosa, il "mio" esterno è quanto non mi si può impedire di usare senza ledermi anche quando non lo detengo fisicamente, in virtù di un possesso intelligibile. 89
La condizione di possibilità di un mio e tuo esterno è dunque un possesso intelligibile (possessio noumenon) distinto da quello empirico (possessio phaenomenon). 90
Per dedurre, nel senso in cui Kant usa solitamente il termine, la possessio noumenon Kant propone tre domande, che si risolvono, nell'ordine in cui sono presentate qui sotto, l'una nell'altra:
Com'è possibile un mio e tuo esterno?
Com'è possibile un possesso intelligibile, puramente giuridico?
Com'è possibile una proposizione giuridica sintetica a priori?
Se per diritto intendiamo il diritto secondo ragione, le proposizioni giuridiche sono tutte a priori in quanto leggi di ragione. La proposizione che si occupa del possesso empirico è analitica: come già visto, chi mi strappa qualcosa di mano lede la mia libertà, facendomi violenza in contraddizione col principio universale del diritto. Parlare del possesso empirico, dunque, è semplicemente parlare, con parole diverse, del pari spazio di libertà riconosciuto a tutti in quanto soggetti di diritto. La possessio noumenon, però, insiste su una cosa fuori di me inventandosi un possesso che non può essere derivato dal concetto della mia libertà giuridica, perché è senza detenzione empirica, fuori dal mio spazio di libertà: per introdurla occorre un giudizio sintetico a priori. 91
Per questo la presa di possesso di un pezzo di terreno che è ancora res nullius è un atto di arbitrio privato che non può essere detto dispotico. Chi la compie per primo, infatti, è legittimato dal possesso comune originario della terra e dalla corrispondente volontà generale a priori di permetterne l'appropriabilità, per evitare che tutto rimanga res nullius non utilizzabile da nessuno. In questo caso, chi se ne impossessa lo fa iure o secondo il diritto (naturale), anche se non de iure, cioè tramite un procedimento legale, perché non è ancora stata istituita una società civile in grado di far valere una legge pubblica coercitiva. Chi interferisce nell'uso del primo detentore di un terreno lo lede dunque sul piano giuridico, perché la prima presa di possesso è già un titulus possessionis legittimo (beati possidentes).
Il possesso comune innato della terra (communio fundi originaria) non deve essere confuso con la condizione di un terreno considerato o dichiarato libero, ossia aperto all'uso di chiunque. Questa situazione, infatti, non è quella naturale, anteriore a ogni atto giuridico, ma richiede una appropriazione collettiva, tramite una qualche forma di contratto col quale i membri di un gruppo si sarebbero vietati a vicenda la privatizzazione della terra e concordano le norme del suo uso come di un bene comune. 92
La communio fundi originaria è per Kant un'idea della ragione e ha realtà oggettiva in quanto pratico-giuridica, essendo connessa al postulato giuridico della ragion pratica. Per i motivi già accennati, però, va rigorosamente distinta dal comunismo primitivo (communio primaeva), che Kant tratta come un'invenzione. 93 Infatti, è certamente possibile istituire una proprietà comune del suolo con un contratto: ma una simile contrattazione presuppone che le parti abbiano già compiuto l'appropriazione originaria e si siano impegnate a collettivizzarla. L'appropriazione originaria non può essere collettiva, in altri termini, perché la comunione richiede una società già costituita: non possiamo dunque trattarla come un'origine ideale, ma solo come un'istituzione storica, che può svilupparsi solo col presupposto di un diritto già in atto e non meramente postulatorio.
Un principio teoretico a priori ha bisogno dell'aggiunta di un'intuizione a priori per essere applicato all'esperienza e ricevere un contenuto cognitivo. Il concetto di possesso però nasce nell'ambito della ragione pratica: per comprenderne la legittimità si deve procedere in senso opposto, togliendo le condizioni dell'intuizione in modo da estenderlo oltre il dato empirico: il "mio" giuridico, come sappiamo, è distinto dal possesso empirico, così come il connesso postulato giuridico. La sua possibilità, dunque, non può essere dedotta teoreticamente, come è stato necessario fare nella deduzione trascendentale della Critica della ragion pura, perché esso non nasce con una pretesa descrittiva, bensì discende direttamente dalla legge pratica della ragione come suo fatto. Pertanto voler provare che esso ha una validità descrittiva sarebbe tanto fuori luogo quanto leggere il codice penale come se fosse un trattato di sociologia empirica e denunciarlo come falso perché nel mondo si perpetrano delitti nonostante le sue norme li proibiscano.
Anche se ammettiamo che il concetto di possesso giuridico non è empirico, perché è indipendente dallo spazio e dal tempo, esso, per avere realtà pratica, deve essere applicabile agli oggetti dell'esperienza, la cui conoscenza ha luogo nello spazio e nel tempo. Com'è possibile farlo?
Abbiamo già visto che il possesso in senso giuridico non si può applicare immediatamente agli oggetti dell'esperienza e al concetto del possesso empirico, perché gli manca la componente, empirica, della detenzione (detentio). Kant, pertanto, sceglie un'altra strada: applicare il concetto giuridico al concetto puro dell'intelletto di un possesso in generale. Questo concetto non comprende la detenzione, bensì quello che Kant chiama avere, che significa semplicemente tenere in proprio potere un oggetto distinto da noi stessi.
Per Aristotele l'avere era una categoria a se stante; Kant la fa ricadere nella categoria della causalità. 94 Come anticipato, dunque, l'applicazione non ha luogo sull'intuizione sensibile, nello spazio e nel e tempo, ma a un livello più alto, quello delle categorie dell'intelletto: il possesso giuridico non può essere descritto come un tenere in mano, qui e ora, qualcosa che ci è contiguo nello spazio e nel tempo, bensì come un avere sotto il proprio controllo qualcosa di distinto da sé. Kant illustra questa tesi con tre esempi, organizzati secondo la tipologia esposta nel §4.
In virtù del concetto intelligibile di possesso mi è lecito dire che un campo è mio anche quando ne sono lontano, perché è rilevante solo il nesso puramente giuridico della mia volontà con l'oggetto, indipendentemente dalla relazione che intrattengo con esso nel tempo e nello spazio. Infatti, un luogo della terra non è un "mio" esterno semplicemente perché occupo il suo spazio col mio corpo: i confini del mio corpo segnano lo spazio della mia libertà personale e non comprendono nulla fuori di me. Sono titolare di un "mio" esterno solo se il luogo è mio anche quando mi sposto altrove. Anzi, se l'occupazione continua di uno spazio fosse la condizione per poterlo chiamare "mio" non potrei chiamare "mio" nessun oggetto esterno a me, oppure dovrei immaginarmi, contraddittoriamente, come presente allo stesso tempo in due luoghi diversi.
Anche una promessa rientra nel mio avere indipendentemente dallo spazio e dal tempo: se sono il destinatario di una promessa, il promittente non può rifiutarsi di mantenerla affermando che la promessa è stata fatta ieri, ma oggi è un altro giorno: se, infatti, consideriamo le parole del promittente indipendentemente dallo spazio e dal tempo i suoi "mio impegno a fare X" di ieri e "non mi impegno a fare X" di oggi producono una contraddizione.
Analogamente, la comunione domestica e il diritto reciproco fra un soggetto e sua moglie, suo figlio o il suo servo non si scioglie perché questi hanno facoltà di spostarsi nello spazio, separandosi fra loro, perché il vincolo è di natura giuridica.
La tesi qui presentata è il risultato di una critica, la quale a sua volta discende da una antinomia esito di una inevitabile dialettica. Per dialettica Kant intende, come nella Critica della ragion pura, la "logica dell'illusione", vale a dire la disciplina che si occupa degli argomenti con i quali la filosofia tenta di andare oltre i confini di quanto le è possibile conoscere, confondendo i fenomeni con le cose in sé. 95 Una antinomia è una contraddizione fra due proposizioni - una tesi e un'antitesi - che sembrano entrambe fondate. Nel caso in esame, la ragion pratica è messa in difficoltà dalla pensabilità del possesso sia in senso noumenico, sia in senso fenomenico.
Tesi: "è possibile avere qualcosa di esterno come proprio sebbene io non ne sia in possesso"
Antitesi: "non è possibile avere qualcosa di esterno come proprio se io non ne sono in possesso"
Sintesi: entrambi le affermazioni sono vere.
Per superare la contraddizione basta rendersi conto che termine "possesso" ha un significato duplice e applicare a tesi ed antitesi l'uno o altro così da controllare quale interpretazione rende ciascuna di esse vera e quale invece rende ciascuna di esse falsa. 96
La tesi è vera se per "possesso" intendo la possessio phaenomenon o sensibile: un oggetto è giuridicamente mio (possessio noumenon) anche se non lo tengo, sensibilmente, in mano.
L'antitesi è vera - e anzi tautologica - se il possesso è inteso in senso intelligibile: un oggetto esterno non può essere giuridicamente mio se non ne ho un possesso in senso intelligibile, ovvero, più semplicemente, se non mi trovo in una relazione sociale con altre persone che me ne riconoscano la titolarità
La possibilità di un possesso intelligibile segue dal postulato giuridico della ragion pratica: non ha bisogno di fondarsi sull'esperienza perché istituisce relazioni meramente intelligibili che riguardano l'ambito di quello che deve essere e non di quello che è.
Quando dichiaro, verbalmente o di fatto, di volere che un oggetto esterno sia mio, sto nello stesso tempo chiedendo che gli altri siano obbligati a non interferire coll'oggetto del mio arbitrio. Ma mi è lecito avanzare una pretesa sul "mio" esterno solo se nello stesso tempo mi sento obbligato alla medesima astensione nei confronti del "tuo" esterno altrui.
Ma come posso assicurarmi che il "mio" esterno verrà rispettato?
1. Imporre unilateralmente la mia volontà sarebbe una soluzione
contingente, perché può sussistere solo finché conservo la forza di farlo;
ingiusta, perché disconoscerebbe la libertà fondata su leggi universali.
2. Occorre dunque una legge collettivamente universale e dotata di potestà (machthabend) in grado di dare a tutti la stessa garanzia. 98
Una volontà è collettivamente universale quando si può intendere come la volontà di tutti insieme. 99 Ma la situazione in cui ciò si realizza è solo lo stato civile conseguente al pactum unionis civilis, il quale manifesta l'universalità della volontà tramite una legislazione pubblica e la garantisce con la sua forza. La differenza fra lo stato di natura e la condizione civile non sta nella società o nel diritto: sta, semplicemente, nelle garanzie.
Da quanto detto Kant deriva, come corollario, che, per rendere giuridicamente possibile il possesso di un oggetto esterno come proprio, si deve riconoscere che il dovere di entrare in una costituzione civile è di carattere giuridico: mi è cioè lecito costringere chiunque possa interferire con i miei diritti a entrare con me in una costituzione civile. Se, infatti, l'ingresso fosse facoltativo otterremmo una situazione disuguale in cui io posso far valere i miei diritti solo rivolgendomi a un giudice terzo fra le parti, mentre il mio vicino può farsi giustizia da sé, essendo rimasto giudice in causa propria perché ancora allo stato di natura.
La costituzione civile non costituisce e non determina il diritto di ciascuno: si limita soltanto a garantirlo, rendendolo perentorio, cioè assicurato, giuridicamente, dalla presenza di un giudice terzo fra le parti, e, fattualmente, dal potere coercitivo dello stato.
Il "proprio" di ognuno è, infatti, di competenza del diritto di natura e non può essere messo in discussione da leggi statutarie, la cui legittimità dipende dalla loro conformità al diritto secondo ragione. Esso, dunque, deve essere assunto come possibile prima o a prescindere dalla condizione civile.
Nello stato di natura deve dunque valere il postulato giuridico della ragion pratica e il diritto del primo occupante - dunque la connessione presunta del possesso fisico in atto al possesso giuridico. Questo diritto, infatti, concorda con il postulato dell'appropriabilità ed è potenzialmente compatibile con una legge della volontà comune che, al momento, non esiste, perché non è stata ancora istituita una società civile tramite un pactum unionis civilis.
Kant chiama la situazione di chi, nello stato di natura, rivendica tale diritto, possesso giuridico provvisorio:
si tratta di un possesso giuridico perché, in quanto fondato su un principio universale, concorda potenzialmente con una legge della volontà comune istituita da una società civile; chi lo rivendica, infatti, chiede a chi glielo contesta di entrare con lui nella condizione civile con un ragionamento del tipo "se la tua contestazione è fondata su ragioni giuridiche allora non dovresti avere difficoltà a far decidere la questione a un giudice terzo dotato di potere coercitivo che applichi una legge uguale per tutti; se però rifiuti di entrare in una costituzione civile, allora la tua contestazione è fondata su una volontà unilaterale e io ho diritto di costringerti a entrare in una costituzione civile, o di chiederti di allontanarti da me, o di resisterti";
si tratta di un possesso provvisorio e solo comparativamente giuridico perché non ha ancora garanzia ed è esposto alla contestazione di chi agisce come giudice in causa propria. Lo stato di natura, infatti, è strutturalmente affetto dalla provvisorietà perché manca una autorità terza in grado di dire e di imporre l'ultima parola. 100
Il passaggio alla società civile che rende il mio e il tuo esterno perentorio può sancire sia sistemi a prevalente proprietà privata, sia sistemi in cui prevale le comunione dei beni; quest'ultima, infatti, come spiegato nel §6, è un'invenzione se pensata come comunismo primitivo anteriore all'acquisizione originaria, ma può ben esistere come soluzione civile. Lo stato di natura, infatti, è il luogo dell'appropriabilità resa possibile dal postulato giuridico della ragion pratica, nonché dell'appropriazione originaria: ma in esso non si costituiscono assetti proprietari originari - individuali o comunitari che siano - bensì solo rivendicazioni provvisorie. L'appropriazione originaria, in altri termini, non è un diritto di proprietà originario. L'unico diritto "originario", in quanto innato, è infatti la libertà.
Il contratto originario (pactum unionis civilis) non è per Kant un fatto storico, bensì un'idea della ragione: dobbiamo pensare l'acquisizione originaria come individuale e provvisoria perché in una condizione senza un giudice terzo fra le parti anche le comunioni sarebbero a fortiori società provvisorie. Una società civile potrebbe ben scegliere, tuttavia, di rendere perentoria una distribuzione della proprietà prevalentemente o anche esclusivamente comunitaria: il formalismo di Kant 101 è dunque compatibile sia con un assetto proprietario liberale, sia con un assetto socialista.
Il primo capitolo ha spiegato che cosa s'intenda per mio e tuo giuridico; il secondo capitolo, invece, si occupa dell'acquisizione, cioè del modo in cui qualcosa può diventare giuridicamente mio o tuo. L'acquisizione, in una società civile già istituita, deriva solitamente da un atto giuridico, tramite il quale qualcun trasferisce a me qualcosa di suo. Ma, filosoficamente, è più interessante capire come può avvenire l'acquisizione originaria, cioè senza la mediazione di un mio e tuo già giuridicamente riconosciuto.
Come anticipato nel §6 del capitolo precedente, l'acquisizione originaria non può aver luogo tramite una privatizzazione di una comunione primitiva. Infatti, una simile condizione di comunanza avrebbe bisogno di essere fondata su un accordo già di fatto concluso fra i membri di una società: sarebbe, dunque, già giuridica in senso perentorio, e pertanto quanto fosse acquisito con la sua divisione non sarebbe l'esito di una acquisizione originaria, bensì di una acquisizione derivata (communio derivativa).
Questo argomento chiarisce ulteriormente che lo scopo della costruzione di Kant non è giustificare la proprietà privata individuale come superamento del comunismo primitivo, bensì legittimare la facoltà giuridica dell'appropriazione. E, dato il carattere intelligibile del mio e del tuo, la comunione originaria (communio mei et tui originaria) deve anch'essa venir intesa come fondata su princípi e non sulla storia, vale a dire come qualcosa che è pensato, ma mai storicamente avvenuto. In altre parole: anche una società comunista è già storica e civile, perché ha già dato per legittimata l'appropriazione: ma come è possibile farlo? Per rispondere, secondo Kant, non bisogna raccontare una storia: bisogna fare un ragionamento.
Per il principio dell'acquisizione esterna: è mio ciò
che assumo in mio potere secondo la legge della libertà esterna;
di cui ho facoltà di far uso come oggetto del mio arbitrio, secondo il postulato giuridico della ragion pratica;
e infine voglio che sia mio, secondo una possibile volontà unificata.
Nel dettaglio, i momenti dell'acquisizione originaria (occupatio) 102 sono dunque i seguenti:
apprensione, nello spazio e nel tempo, di un oggetto che non appartiene a nessuno, dalla quale risulta una possessio phaenomenon: in questa fase, in altre parole, metto le mani su qualcosa senza ledere la pari libertà altrui secondo leggi universali perché l'oggetto in questione non è di nessuno;
designazione (declaratio) del mio possesso di quell'oggetto e dell'atto del mio arbitrio di escluderne ogni altro;
appropriazione (appropriatio): il possesso sensibile (possessio phaenomenon) diventa giuridico e intelligibile (possessio noumenon) attraverso un atto ideale di una volontà universalmente legislatrice, tramite il quale ognuno è vincolato ad accordarsi col mio arbitrio.
In altre parole: perché ci sia una acquisizione originaria non è sufficiente che io metta le mani su una res nullius e dichiari che è mia: occorre anche che la mia pretesa sia idealmente compatibile con la volontà di tutti insieme entro una società civile. È solo quest'ultimo passaggio che rende possibile tutelarne giuridicamente il titolo, cioè costringere legittimamente gli altri ad astenersi dall'usare il suo oggetto.
Perché Kant ha suddiviso l'appropriazione in tre fasi? Non sarebbe stato più semplice ridurla a una funzione distributiva della società civile, o farla derivare da accordi bilaterali, in modo da evitare l'unilateralità dell'apprensione? Per rispondere alla domanda, bisogna svolgere quanto detto nella conclusione del capitolo:
se l'acquisizione fosse l'esito di un accordo bilaterale, avrebbe a oggetto qualcosa che è già proprio di qualcuno. Essa sarebbe dunque una mera acquisizione derivata, sulla base di un contratto fra due o più persone - cosa, questa, che lascerebbe irrisolta la questione dell'acquisizione originaria;
la società civile offre un riconoscimento giuridico pubblico di quanto Kant chiama "primo acquisto", fondato sull'unione di tutte le volontà particolari, in un atto omnilaterale, cioè da parte di tutti insieme;
il primo acquisto, anche se è qualcosa di acquistato per la prima volta, nasce già con una sanzione pubblica: è dunque primo, ma derivato da un sistema che già regola il mio e il tuo con una legge pubblica coercitiva;
l' "invenzione" del mio e del tuo può avvenire solo con l'acquisto originario, che inaugura, con un atto unilaterale anteriore alla società, un nostro rapporto con gli oggetti - possibile e permesso, ma non necessario - senza il quale non sarebbero pensabili né acquisti derivati, né acquisti primi.
Kant propone tre criteri di classificazione.
Che cosa si acquista? Rispetto alla materia o oggetto, io posso acquistare
una cosa corporea (sostanza)
la prestazione di una persona (causalità)
la condizione di una persona (commercium)
Kant sta qui facendo riferimento al §4 del capitolo precedente, nel quale aveva esposto gli oggetti esterni dell'arbitrio secondo la tavola delle categorie dalla relazione; commercium, applicato alle relazioni reciproche familiari qui ha il senso generico di "rapporto" o "comunione".
In che modo (giuridico) si acquista? Rispetto alla forma, io posso acquistare:
uno ius reale
uno ius personale
ius realiter personale (diritto personale in senso reale)
La prima partizione rispondeva alla domanda: "che cosa si acquista?"; la seconda, che insiste sugli stessi oggetti, considera il modo, cioè la relazione giuridica che ha luogo su di essi; infine, i diritti familiari sono "personali in senso reale" perché instaurano un controllo - si pensi al rapporto genitore-figlio - molto più intenso del diritto personale, il quale li avvicina, per alcuni aspetti, ai diritti sulle cose.
Rispetto al fondamento giuridico o titolo dell'acquisizione, qualcosa di esterno può essere acquisito tramite l'azione di un arbitrio:
unilaterale (factum)
bilaterale (pactum)
omnilaterale (lex)
Quest'ultimo punto non è propriamente un elemento della partizione dei diritti, ma riguarda la maniera del loro esercizio. La risposta alla domanda "a quale titolo si acquista?" è triplice: di fatto, se non devo accordarmi con nessun altro; per contratto, se devo accordarmi con qualcuno; o per legge, se mi devo accordare con tutti. 103
Un diritto reale o diritto su una cosa (ius in re) è un diritto contro ogni possessore (sensibile) della cosa che mi autorizza a costringerlo a riconsegnarmela. 104 Questa definizione appare a Kant nominalmente corretta, ma manchevole: essa, infatti, dà l'impressione che ci sia un rapporto immediato fra il proprietario e la cosa, come se fosse la cosa stessa ad essergli vincolata e il diritto fosse una specie di genio che la protegge da ogni interferenza esterna. La cosa, però, non può né obbligare né essere obbligata. Se ci deve essere un dovere che corrisponde al mio diritto, esso non può essere di qualcosa: deve essere di qualcuno. La proprietà, dunque, va pensata come una costruzione sociale. La sua definizione reale, sarà quindi:
il diritto su una cosa è un diritto all'uso privato di una cosa nel cui possesso comune (originario o istituito) io sono con tutti gli altri.
Perché presupporre un possesso comune?
Mi trovo davanti a qualcuno che ha in mano una cosa: come posso sostenere che questa circostanza mi leda giuridicamente?
Potrei procedere a vie di fatto, con un atto unilaterale del mio arbitrio: ma il fatto non costituisce diritto.
Posso pensarla come un possesso comune, il quale, perché sia tale, deve essere sancito omnilateralmente dall'arbitrio di tutti.
Fra queste due opzioni solo la seconda produce un possesso giuridico, perché non si basa su un arbitrio unilaterale, ma sulla decisione di una società civile considerata nel suo insieme. Le cose possono essere mie in senso giuridico soltanto quando sono nostre, cioè quando una volontà collettiva ha riconosciuto gli oggetti come appropriabili e ne ha distribuito la proprietà fra gli individui. Il diritto reale non è un diritto sulle cose, bensì un rapporto fra le persone entro una condizione civile. Se un essere umano fosse solo sulla terra non potrebbe esserne proprietario: pur essendoci le cose, non ci sarebbero le persone per costruire l'accordo sociale in cui consiste il diritto reale. Il diritto reale, in altri termini, ha nominalmente per oggetto una cosa, ma è una relazione - intelligibile - fra persone. 105
Kant. intendendo per suolo tutta la terra abitabile, costruisce la sua tesi sulla distinzione fra sostanza e accidente,. La sostanza è il soggetto o substrato che non muta, l'accidente è ciò che le inerisce e che può cambiare. Proviamo ad applicare questa distinzione al suolo e agli oggetti che vi sono sopra.
Il suolo fa la parte della sostanza e gli oggetti mobili che vi stanno sopra sono i suoi accidenti o inerenze. Questo ha due conseguenze:
non posso acquisire gli accidenti senza aver acquisito la sostanza: per esempio, posso appropriarmi dei mirtilli che crescono in un prato solo se ho acquisito una qualche forma di diritto reale sul prato
posso, però, acquisire solo la sostanza, cioè la terra, dopo aver spostato tutti gli oggetti mobili che accidentalmente vi si trovavano sopra.
Esiste, però, un terzo caso, quello dei beni che si trovano sul terreno, come per esempio un albero o una casa, e che non possono essere spostati senza venir distrutti: essi sono mobili secondo la materia, perché io posso ridurre la casa in macerie e l'albero in legna per portarli via, ma immobili secondo la forma: in questo caso essi possono essere oggetto di un mio e tuo esterno separato, ma non come sostanza, bensì come suoi annessi o allegati.
Kant rinvia, per la prova dell'appropriabilità, al postulato giuridico della ragion pratica. Quanto alla communio possessionis originaria, essa non va trattata come un fatto storico alla stregua del fittizio comunismo primitivo bensì come un concetto pratico della ragione. La comunione non è l'origine fattuale della proprietà, destinata a essere superata con lo sviluppo: è il suo fondamento logico-giuridico, che nessuno sviluppo potrà eliminare. Gli esseri umani si trovano gettati sulla terra dalla natura o dal caso, senza averlo scelto: la comunione originaria deve essere pensata allo scopo di legittimare il loro diritto a far uso del posto in cui è capitato loro di trovarsi. 106
Questo possesso è comune perché la superficie terrestre è finita e non infinita, il che obbliga ciascuno a entrare in relazione con gli altri e a dover presupporre una base comune di rivendicazione giuridica sulle cose che altrimenti non sarebbe indispensabile. Anche per questo, il postulato giuridico della ragion pratica è solo una legge permissiva della ragione.
Per Kant l'occupazione è l'acquisizione di un oggetto esterno dell'arbitrio mediante una volontà unilaterale. Le sue fasi sono due:
l'apprehensio o presa di possesso con la quale inizio a detenere fisicamente una cosa corporea nello spazio: questo mio primo prendere qualcosa concorda con la libertà solo se è cronologicamente prioritario, cioè solo se non ho strappato via l'oggetto a qualcuno che l'aveva già in mano prima di me;
l'appropriatio, cioè la volontà che la cosa sia mia. Una simile volontà, che è unilaterale se è di un singolo o bilaterale se è di un gruppo da più di una persona, è, in questa fase, soltanto particolare. È, cioè, la volontà di uno o di alcuni, ma non ancora di tutti.
L'appropriazione si può fondare solo sul postulato della ragion pratica. Il postulato, però, come legge permissiva, si limita a dire che l'appropriazione ci può essere, cioè che le res nullius sono appropriabili. Non è, dunque, di per sé sufficiente per farci passare dall'appropriabilità della cosa a un diritto reale su di essa. Per avere un diritto, in altre parole, non è sufficiente che una o alcune persone dicano che un oggetto è loro, perché l'hanno preso per primi, o riconoscono che qualcun altro l'ha preso per primo. Un'obbligazione costruita su questa circostanza sarebbe infatti costruita su fatti accidentali. Occorre, pertanto, una volontà legislatrice omnilaterale, cioè non solo di alcune persone particolari, bensì di tutti i soggetti possibili. Ma una simile unificazione può essere pensata soltanto a priori, in modo da accordare il libero arbitrio non solo con la libertà delle persone particolari che si sono appropriate dell'oggetto e hanno dato il loro assenso - altrettanto particolare - ma con quella di ogni altro secondo una legge universale.
Ci sono o ci possono essere persone che non vogliono entrare in una costituzione civile: per questo la sua Wirklichkeit o effettualità è detta da Kant soggettivamente contingente. Il dovere di entrarvi è però oggettivamente necessario: senza di esso, infatti, non sarebbe possibile avere un sistema di garanzie valido per tutti. E a questo dovere è sottoposta ogni acquisizione esterna.
L'acquisizione comincia con una presa di possesso fisica (apprehensio physica), fondata sulla comunione originaria del suolo: questo evento è il suo titolo empirico. Ma perché l'oggetto possa dirsi "mio" devo far corrispondere al possesso solo fenomenico una presa di possesso intelligibile, per la quale posso affermare che è mio quanto ho preso in mio potere secondo leggi della libertà esterna e voglio sia tale.
Ma per Kant non basta che io non abbia violato una pari libertà altrui e abbia messo le mani su qualcosa con l'intento di dichiararla mia perché essa sia riconosciuta giuridicamente come mia, cioè perché gli altri siano soggetti all'obbligazione connessa al diritto reale. Per avere questo riconoscimento e trasformare il mio titolo in razionale ho bisogno dell'accordo di tutti, cioè della volontà di tutti unificata a priori, ossia della costituzione civile. Perché? Rivediamo le fasi dell'acquisizione originaria:
metto le mani su un oggetto che non appartiene a nessuno: per il postulato giuridico della ragione pratica che permette l'appropriabilità, non ho leso nessun diritto altrui;
dichiaro che è mio, cioè pretendo che chiunque altro si astenga dall'uso della cosa;
"chiunque altro" però, può sentirsi obbligato solo entro una società civile che riconosca allo stesso modo a tutti il diritto conseguente all'acquisizione originaria.
Fuori da una società civile l'acquisizione originaria è solo provvisoria: io posso ben averla compiuta con la volontà di trasformarla in diritto, ma gli altri possono riconoscermelo o disconoscermelo come perentorio, cioè come indiscutibile, solo se il consenso che essi gli hanno dato non è particolare, bensì universale. Nello stato di natura, al contrario, il mio possesso è sempre provvisorio, perché, mancando il consenso universale idealmente alla base del pactum unionis civilis, chiunque potrebbe trovarlo discutibile e, da giudice in causa propria, agire di conseguenza. Ho, in altre parole, un possesso provvisorio quando rimane sempre qualcuno che potrebbe, non essendo d'accordo, strapparmi via quello che ho occupato; un possesso perentorio quando sono in una società che ha scelto di dirimere le controversie secondo il diritto.
Nelle ultime due pagine del §15 Kant, facendo mostra di rispondere ad alcune domande, prende posizione nei confronti delle teorie della proprietà di Locke e di Rousseau.
Kant risponde: fin dove arriva la capacità di averlo in proprio potere, cioè di difenderlo. Lo stesso criterio vale anche per definire il limite delle acque territoriali di uno stato, che deve coincidere con la gittata dei cannoni. Questa risposta indica con chiarezza in che senso il possesso, nello stato di natura, sia provvisorio: se arriva qualcuno a contestarmi il mio possesso, io devo prepararmi a difenderlo con le armi, in mancanza di un giudice terzo fra le parti dotato di potere coercitivo. Né è fuori luogo l'estensione dell'argomento dal diritto privato al diritto internazionale: in entrambi i casi, infatti, abbiamo a che fare con uno stato di natura, che è differente solo nei suoi soggetti - qui gli individui, là gli stati, i quali possiedono solo il territorio che sono in grado di proteggere in una eventuale guerra.
Kant risponde negativamente. Per lavorare un terreno devo aver già compiuto l'acquisizione originaria, cioè devo aver già ottenuto il titolo per trattarlo come mio e farne uso nel modo che preferisco. Il lavoro, in altri termini, è solo un elemento accidentale del possesso: è, tutt'al più, un segno esteriore dell'avvenuta presa di possesso, ma, osserva Kant con una lieve ironia, possiamo anche ricorrere a segnalazioni meno faticose. In altre parole: se io ho acquisito legittimamente l'oggetto posso lavorarlo, o anche, più comodamente, metterci un cartello con l'avviso "Proprietà privata" ; ma se la mia acquisizione non è legittima, il mio lavoro non può renderla legittima.
L'oggetto implicito dell'ironia di Kant è la giustificazione della proprietà contenuta nel V capitolo del secondo trattato sul governo di John Locke. 107 Per Locke Dio ha dato il mondo a tutti gli uomini in comune (V.25); gli uomini, però, possono privatizzarne ogni porzione che mescolano con il proprio lavoro (V.28). Il comunismo primitivo è dunque esito di una donazione da parte di Dio: Locke, in questo modo, evita il problema del titolo giuridico all'appropriazione originaria perché, a rigore, la privatizzazione della terra tramite il lavoro è già un'acquisizione derivata. Invece per Kant, che tratta il comunismo primitivo, con il suo deus ex machina, come un'invenzione, il lavoro non può essere titolo di acquisizione originaria: io, infatti, posso lavorare legittimante solo una terra che è già mia. Se la terra fosse res nullius non potrei appropriarmene semplicemente lavorandola, senza riconoscere il postulato giuridico della ragion pratica. Ma, una volta accettato questo postulato, l'appropriazione si può compiere senza affaticarsi perché la facoltà di lavorare - o no - un pezzo di non è più un titolo di proprietà, bensì solo una conseguenza della proprietà.
Questo argomento viene ripreso nell'annotazione al §17 (268-269): lavorare per la prima volta, recintare o in genere modificare un terreno non possono costituire titoli di possesso giuridico perché insistono su un aspetto accidentale, e non sostanziale, dell'oggetto: io posso aver titolo a coltivare i pomodori, se lo desidero, su un terreno che è già mio, perché possedendo la sostanza posso alterarne anche gli accidenti ma non posso sperare di acquisire un campo non mio semplicemente coltivandolo.
La persistenza di una convinzione così evidentemente errata, scrive Kant, dipende dalla tendenza a personificare le cose, la quale induce a pensare, magicamente, che il fatto di lavorare su un oggetto lo metta in relazione con me e la ponga al mio servizio esclusivo.
Questa domanda riecheggia un celebre passo di Rousseau: 108
Il primo che, recintato un terreno, ebbe l'idea di dire: Questo è mio, e trovò persone così ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, assassini, quante miserie ed orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i paletti o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: Guardatevi dall'ascoltare quest'impostore; siete perduti, se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno.
La risposta di Kant ne mette in luce l'incoerenza. Non si può, infatti, sostenere che la terra non appartiene a nessuno in assoluto, come scrive retoricamente Rousseau: chi contesta la recinzione di un campo sta pur sempre usando la terra su cui si trova, cosa che gli sarebbe impossibile se la terra in generale fosse res nullius. Tutt'al più, si può affermare che un pezzo di terra il quale separa i due contendenti sia neutrale, nel senso che non appartiene a nessuno dei due e può essere usato da entrambi. Ciò non significa, però, che questo pezzo di terra è una res nullius: significa che è un bene comune: ma per fare di una res nullius un oggetto di proprietà, individuale o collettiva, bisogna preliminarmente postularne l'appropriabilità.
La domanda è stata tradotta a calco dal tedesco, per far capire al lettore italiano che Kant non sta parlando, contraddittoriamente, di una res nullius, bensì di un bene comune, come risulta chiaro dalla sua risposta, che è affermativa. Fra i Mongoli, per esempio, ciascuno può riprendere il suo cavallo o lasciare il suo bagaglio dovunque, perché tutto il suolo appartiene al popolo e tutti hanno titolo a usarlo. È anche possibile avere come propria una cosa mobile che si trova sul suolo di un altro: in questo caso, però, occorre un contratto.
Kant si chiede se, una volta entrati in contatto, di proposito, con popoli con cui pare impossibile un'unione civile, sia lecito espropriarli del loro territorio con la forza o con l'inganno per colonizzarli e condurli così in una situazione giuridica, impadronendosi del loro suolo e facendo uso della nostra superiorità "senza riguardo al loro primo possesso". Simili comportamenti vengono giustificati con la tesi che altrimenti le loro terre rimarrebbero prive di popolazione civile o anche interamente spopolate. Questo argomento, basato sull'idea che il fine giustifichi i mezzi, è per Kant un espediente gesuitico per velare un'espropriazione ingiusta. 109
Non si può dunque affermare che i colonizzatori compiano un'acquisizione originaria come se le terre colonizzate non fossero già abitate da persone con un possesso precedente al loro. E anche se riconosciamo che una acquisizione originaria debba pur avuto luogo, perché le acquisizioni non possono essere tutte derivate, il suo concetto non è facile da usare, per due motivi:
gli oggetti di tale acquisizione sono indeterminati sia nella qualità sia nella quantità;
se l'acquisizione originaria fosse istituita con un contratto originario, esso sarebbe valido solo se esteso all'intero genere umano: una sedicente società civile parziale, che tratti i popoli "incivili" e le loro terre come oggetto di occupazione coloniale, non è affatto civile proprio perché non estende a tutti la garanzia del diritto.
Usando la struttura sistematica del capitolo precedente, Kant espone, cioè definisce tramite l'enumerazione di esempi, il concetto di acquisizione originaria del suolo. Lo svolgimento di questi esempi è cadenzato secondo la partizione generale dei doveri giuridici costruita sui tre precetti di Ulpiano.
Lex iusti: tutti gli esseri umani godono originariamente del possesso comune (communio fundi originaria) di tutta la terra e hanno naturalmente la volontà 110 di farne uso. Questa comunione originaria è dunque il principio universale su cui si fonda l'acquisizione. La lex iusti è costruita sulla prima formula di Ulpiano, l'honeste vive, che impone di trattare se stessi sempre anche come fini e mai come semplici mezzi. In altre parole, ci permettiamo di presupporre un rapporto originario fra di noi che ha per oggetto le cose perché ci riconosciamo come esseri dotati di una dignità e capaci di progetti per perseguire i nostri fini.
Lex iuridica: poiché però nell'azione sulle cose gli arbitrii si contrappongono a vicenda, occorre una legge razionale la quale permetta di determinare per ciascuno un possesso particolare del suolo. La comunione originaria, perché possa trasformarsi in diritti e doveri degli uni e degli altri, in quanto tutti esseri dotati di arbitrio che fanno progetti sugli oggetti e li mettono conseguente in atto, ha bisogno di norme che la specifichino in relazione alle cose.
Lex iustitiae distributivae: perché sia effettivamente garantito a ciascuno il suo secondo il diritto bisogna però presupporre, non come atto ma come idea, la società civile, che si fonda su una volontà unita originariamente e a priori. Essa determina che cosa è giusto, in linea di principio, che cosa è giuridico in termini di norme specifiche e che cos'è di diritto in termini di riconoscimento, sulla base di queste norme, di quanto mi spetta. Una tale determinazione, cioè, può aver luogo secondo il diritto e non solo sulla base della forza una volta istituito un giudice terzo fra le parti dotato di potere coercitivo.
Se manca la società civile, rimane doveroso riconoscere l'acquisizione esterna di un oggetto e obbligare ciascuno a prenderla sul serio, ma solo in via provvisoria. Mi è permesso compierla, ma devo accettare e anzi pretendere che venga resa perentoria tramite l'istituzione di una società civile. Se essa non c'è, perché altri non vogliono entrarvi, questa acquisizione provvisoria deve essere considerata come un'acquisizione provvisoriamente giuridica. Sono, in altri termini, disposto a discutere del mio e del tuo entro le istituzioni di una società civile solo se chi mi sta intorno è disposto a fare lo stesso: se questa disposizione altrui manca, io posso considerare l'oggetto che ho acquisito come mio, anche se solo provvisoriamente.
L'ultimo paragrafo del capitolo si occupa della deduzione, cioè della legittimazione del concetto di acquisizione originaria. Poiché si tratta di un concetto giuridico, non bisogna dimostrare che è atto a descrivere intersoggettivamente ciò di cui facciamo esperienza, bensì, come nella precedente deduzione del concetto giuridico del possesso se e come è possibile impiegarlo prescrittivamente, per regolare i nostri progetti sottoposti al giudizio della ragion pratica. Anche in questo caso Kant procede a ritroso rispetto alla deduzione teoretica, eliminando le condizioni dell'intuizione.
Il punto di partenza è la communio fundi originaria, che è il titolo dell'acquisizione, perché senza di essa non ci sarebbe lecito acquisire nulla; la sua modalità è la presa di possesso (apprehensio) con la quale prendiamo l'oggetto con la volontà di averlo come proprio. Come può risultare da questa operazione un possesso giuridico, vale a dire intelligibile?
Per rispondere alla domanda, Kant, come in precedenza, toglie da questi concetti gli aspetti sensibili: l'oggetto del mio e tuo esterno inteso in senso giuridico non è una cosa che si trova altrove nello spazio, ma, eliminata l'intuizione, è semplicemente distinta da me; e lo possiedo non perché lo tengo in mano, ma perché l'ho in mio potere, nel senso c'è un nesso fra la cosa e me, così che mi è soggettivamente possibile usarlo. Che cosa rimane dopo che ho fatto astrazione da tutte le condizioni sensibili del possesso?
Il nesso fra me e la cosa non può essere una sua obbligazione, perché quest'ultima non può né obbligare né essere obbligata. Pertanto, l'unica relazione intelligibile che resta è quella fra persone, vale dire la loro obbligazione di tutti gli altri in merito all'uso della cosa. Questa relazione è costituita dalla mia volontà di appropriarmi dell'oggetto, in quanto conforme al riconoscimento della pari libertà esterna altrui, al postulato giuridico della ragion pratica e alla legislazione universale della volontà unita di tutti come pensata nel modello razionale della società civile [268].
La proprietà (dominium) ha luogo su un oggetto esterno. L'oggetto, se è di proprietà di qualcuno, diventa suo secondo la sostanza, e dunque anche secondo i suoi aspetti accidentali, quali, per esempio, la facoltà di lavorarlo: il proprietario può dunque disporne come preferisce (ius disponendi de re sua). 111 Oggetto di proprietà, pertanto, può essere solo una cosa corporea, nei confronti della quale non si hanno obbligazioni.
La figura della proprietà non si applica alla relazione con se stessi: un soggetto di diritto non è proprietario di se stesso (sui dominus), 112 bensì signore (Herr) di se stesso (sui iuris). Essere signori di sé significa non poter disporre di se stessi - e tanto meno di altri - a propria discrezione. Gli esseri razionali, per Kant, non sono cose: possono essere soggetti di diritto solo in quanto li rappresentiamo come soggetti liberi. Ma questa libertà, che è condizione di possibilità del diritto, può essere protetta solo dal dovere che ho verso di me - ma che vale a fortiori verso gli altri -, di rispettare l'umanità nella mia propria persona, cioè di non ridurmi interamente a mezzo per l'uso altrui. Se mi trattassi come una cosa, per esempio firmando un contratto di schiavitù 113 o vendendo parti del mio corpo, eliminerei, contraddittoriamente, proprio quanto mi rende soggetto di diritto meritevole di rispetto nonché giuridicamente capace di prendere impegni e di assumermi responsabilità. Non è una questione - scrive Kant - di diritti degli esseri umani, ma di diritto dell'umanità, o - come si direbbe oggi - non è una questione di diritti delle persone, ma di diritto della personalità: la nostra dignità non consiste nell'essere padroni, ma nell'essere signori - consiste, cioè, nel non essere in vendita e nel non avere un prezzo.
Come anticipato sistematicamente nel §4, io possiedo giuridicamente l'arbitrio di un altro quando ho la facoltà di fargli compiere un atto tramite il mio arbitrio in base alle leggi della libertà. Questo possesso è un diritto: l'articolo indeterminativo indica che posso avere vari diritti di questo tipo, rispetto a una o più persone. Il diritto personale è invece il complesso unitario delle leggi che mi permettono di essere titolare di tali diritti.
Nel diritto personale ho a che fare direttamente con persone, cioè con soggetti di diritto liberi. Questa circostanza limita le modalità di acquisizione di ciascun diritto che appartiene alla famiglia dei diritti personali.
Non posso ottenerlo tramite un'acquisizione originaria e arbitraria. Questo fatto sarebbe contrario al diritto e quindi ingiusto perché negherebbe la libertà di chi ridurrei sotto il mio potere. Sugli oggetti, una legge permissiva può autorizzarmi a un'occupazione provvisoria, in attesa di discuterne entro la società civile. Quando si tratta di persone, con si potrebbe immediatamente parlare, una simile azione equivarrebbe a ridurle in schiavitù.
Non posso acquisirlo in virtù di un atto contrario al diritto compiuto da un altro, per esempio facendo mio schiavo un ladro che ho sorpreso in casa mia, o un debitore che non riesce a ripagarmi. Infatti, se vengo privato di qualcosa che è mio ho certo titolo a chiedere un risarcimento a chi ha violato il mio diritto, ma non posso pretendere di ottenere più di quanto avessi prima della violazione.
L'altro che mi sta di fronte è un soggetto libero: se voglio acquisire un diritto a una sua prestazione, ho bisogno di un atto positivo 114 in cui questi dispone del suo diritto. Non posso costringere un soggetto libero a compiere un'azione a cui non abbia dato il suo esplicito consenso.
Stando così le cose, il trasferimento di un diritto da una persona all'altra può avvenire solo tramite la volontà comune di entrambi, con un accordo bilaterale o contratto in virtù del quale il primo rinuncia a una parte di quanto gli è proprio e il secondo accetta quanto il primo ha rinunciato. Anche l'alienazione, vale a dire il passaggio di proprietà, ha luogo per contratto, in virtù della natura propriamente sociale del diritto reale.
Il contratto è composto da una serie di atti giuridici che - empiricamente - si svolgono in sequenza nel tempo:
atti preparatori, relativi alla trattativa:
offerta (oblatio)
approvazione (approbatio)
atti costitutivi, relativi alla stipulazione:
promessa
accettazione
Nel tempo, un'offerta può condurre a una promessa solo se l'altra parte l'ha apprezzata e ha accettato l'impegno del promittente. Però questi atti di volontà che si presentano uno dopo l'altro formano un contratto solo se non li pensiamo come una serie di passi separati e indipendenti, bensì come momenti contestuali della volontà unificata delle parti contraenti. Nell'esperienza fra la mia promessa e l'accettazione dell'altro c'è sempre un intervallo. ancorché breve, in cui entrambi possiamo sentirci ancora non vincolati. Le formalità esteriori che le parti osservano quanto concludono un accordo contrattuale - per esempio stringersi la mano o spezzare assieme un filo di paglia (stipula) - sono un tentativo di rappresentare assieme fasi che nel tempo stanno in successione. Più semplicemente: quando stringo la mano all'altro intendo indicare che ho preso un impegno con lui e che questi può fidarsi di me come io mio fido di lui.
La deduzione trascendentale dell'acquisizione consente di prescindere dagli aspetti sensibili per concepire come giuridico il rapporto con il quale si controlla una parte dell'arbitrio di un altro e dunque come esclusivamente intelligibile (possessio noumenon): promessa e accettazione sono tali perché espressione di una volontà comune, tramite la quale l'oggetto promesso viene rappresentato come acquisito indipendentemente dalla sua collocazione temporale.
Empiricamente, solo un tipo di contratto, il pactum re initum che ha luogo nello stesso momento in cui inizia la prestazione, rappresenta in modo adeguato il requisito della contestualità degli atti giuridici che lo formano. Ma su un piano intelligibile tutti i contratti sono impegni concordati in cui la volontà unificata e concomitante delle parti costituisce giuridicamente l'oggetto promesso, il quale è legalmente acquisito anche se la promessa può non essere (ancora) stata mantenuta sul piano sensibile. In questo senso - una volta fatta astrazione del tempo - i contratti, intelligibilmente, sono tutti simili al pactum re initum. Le promesse fatte oggi valgono anche domani perché disegnano relazioni intelligibili fra soggetti di diritto e non rapporti empirici fra individui empirici che domani potrebbero cambiare idea perché sono di cattivo umore.
Kant dedica una lunga annotazione alla critica dell'argomentazione con la quale l'illuminista ebreo Moses Mendelssohn, nel suo libro Jerusalem, oder über religiöse Macht und Judenthum (1783). 115 cerca di rispondere alla domanda "Perché dovrei mantenere le mie promesse?".
Kant - come mostra il suo argomento sull'esempio del deposito - è convinto che la doverosità del mantenimento delle promesse sia facilmente comprensibile: una promessa che si ha facoltà di disattendere semplicemente non è una promessa. E però il fatto che sia incoerente non mantenere le nostre promesse non ci dice per quale motivo dovremmo fare promesse e cercare di mantenerle. Mendelssohn cerca di risolvere questo problema, con uno sforzo che però, secondo Kant, è notevole ma in ultima analisi vano.
L'argomentazione di Mendelssohn, fondata sull'equiparazione fra diritti e proprietà e sulla ricerca della felicità, merita di essere esposta per rendere comprensibile il dissenso di Kant.
Per diritto Mendelssohn intende la potestà morale di usare qualsiasi mezzo per promuovere la propria felicità. Per perseguire questo scopo, ciascun essere umano ha un diritto esclusivo alle proprie capacità, a ciò che è prodotto con esse e a quanto è connesso a tali prodotti in modo così forte da non esserne separabile senza venir distrutto: secondo lui tutto ciò è una proprietà originariamente individuale, non comune e non convenzionale.
La nostra felicità non è però esclusivamente egoistica: essa include la benevolenza, sia da parte nostra nei confronti degli altri, sia da parte di altri verso di noi, per la quale io devo dare e ricevere dagli altri quanto non è a me o a loro indispensabile.
La benevolenza non implica tuttavia un dovere di essere positivamente generosi. In uno stato di natura, infatti, sono perfetti - cioè le loro condizioni di applicazione non dipendono da conoscenza e coscienza di chi ha il corrispondente dovere - solo i doveri di omissione: tutti devono astenersi dall'interferire in ciò che è altrui. I doveri positivi, per i quali io ho titolo di chiedere agli altri che mi diano benevolmente parte di quanto per loro è superfluo, sono tutti imperfetti: le loro condizioni di applicazione, cioè, dipendono da conoscenza e coscienza altrui. Nello stato di natura, infatti, ciascuno è signore di tutto ciò che è suo e ha titolo a prendere decisioni in merito in caso di conflitto. Ogni persona tuttavia può trasferire una sua "proprietà" - intesa in senso ampio - a qualcun altro: questo trasferimento ha luogo tramite una promessa che una volta accettata, trasforma il diritto del promittente sull'oggetto in imperfetto e quello del promissario in perfetto, perché a quest'ultimo è stato trasferito il diritto a decidere in caso di conflitto.
Nel novero delle proprietà che possono essere oggetto di contratto Mendelssohn include tutto ciò che è utile a perseguire la nostra felicità: l'uso delle nostre capacità naturali, il diritto al frutto del nostro lavoro e ai beni naturali connessi con esso, e qualsiasi bene, tangibile o intangibile, che è giuridicamente nostro, come un titolo giuridico, una libertà e simili. In altre parole il contratto è un trasferimento di proprietà giustificato dalla nostra ricerca della felicità: mantenere le promesse significa semplicemente trasferire la facoltà di decidere sull'entità trasferita a un'altra persona, per lo scopo della sua e della nostra felicità. Perché dunque dobbiamo mantenere le promesse? Semplicemente perché conviene, se vogliamo essere felici!
È facile capire perché questo argomento appare contestabile a Kant:
è costruito su un'idea oggettiva di felicità che per la filosofia critica non è più sostenibile;
tratta la libertà come parte di una specie di proprietà privata individuale originaria.
Senza un'idea oggettiva di felicità non è più possibile essere certi che le parti trovino conveniente mantenere le promesse, né c'è più garanzia che il contraente possa rimanere signore di se stesso: se la libertà è fra le proprietà di cui sono mistico portatore e a me piace o avverto il bisogno di essere schiavo, che cosa mi impedisce di alienarla totalmente?
Kant, da parte sua, abbandona il tentativo di dimostrare che rispettare i contratti ci conviene: se il contenuto della felicità è particolare e contingente, altrettanto particolare e contingente diventerebbe il movente al rispetto dei contratti che fosse fondato su di essa. Viceversa, nella sua prospettiva, la doverosità del rispetto dei contratti si può costruire solo facendo astrazione da tutte le condizioni sensibili, così da poterli rappresentare come espressione puntuale della volontà unificata di agenti liberi. Tentare di andar oltre, dimostrando perché sono doverosi, avrebbe l'effetto di rendere la doverosità contingente, in quanto dipendente da condizioni sensibili anch'esse contingenti.
Nella geometria euclidea è possibile dimostrare che la somma di due lati di un triangolo e' maggiore del terzo lato (teorema della disuguaglianza triangolare). Ma se ci chiediamo perché deve essere così, l'unica risposta che possiamo dare è del tipo "è così perché è così". Altrimenti, infatti, il triangolo non sarebbe un triangolo perché non riuscirebbe a chiudersi. Questa analogia aiuta a capire come mai è difficile dare una risposta soddisfacente alla domanda "perché mantenere le promesse?": anche le promesse sono promesse solo se sono impegni che si devono mantenere. Se il movente di mantenerle dipendesse da qualcosa di diverso dal loro essere promesse - per esempio la ricerca della felicità - smetterebbero di essere impegni incondizionatamente vincolanti: smetterebbero, cioè, di essere promesse.
Con il contratto io acquisisco propriamente la causalità dell'arbitrio di un altro a proposito di una sua prestazione, o, più semplicemente, l'impegno di qualcuno a fare qualcosa per me. Anche quando il suo oggetto è un diritto reale, il contratto non determina un magico trasferimento di una cosa esterna nel mio possesso, ma solo un'obbligazione attiva a proposito dell'altra persona tramite la quale la cosa è condotta in mio potere. Aver titolo a un'obbligazione che riguarda una porzione della libertà o dei beni altrui mi rende letteralmente più facoltoso: la mia "facoltà" però è un diritto personale rispetto a una persona fisica e non un diritto reale su una persona morale. Come non sono padrone di me, non posso essere padrone di altri.
Agire sull'arbitrio di un altro per fargli svolgere una prestazione, che potrebbe anche essere il trasferimento della proprietà di un oggetto, è mio diritto solo se posso pensarlo come esito dell'arbitrio di tutti unito a priori, in un senso duplice:
un contratto generico che una persona avesse sottoscritto a forza non potrebbe essere pensato come effetto dell'arbitrio di tutti a priori, perché mancherebbe la libertà che ne è condizione di possibilità;
un contratto che comporta un passaggio di proprietà, per la natura sociale del diritto reale, mi permette di acquisirlo solo se idealmente posso farlo valere nei confronti di chiunque. 116
Il trasferimento di una proprietà tramite contratto ha luogo senza soluzione di continuità: l'oggetto non viene abbandonato dal venditore, diventando una res nullius, perché l'acquirente se lo prenda come in un acquisto originario. Il diritto sull'oggetto è sempre sostenuto dalla volontà unificata delle parti, appartenendo sempre almeno a una delle due e, nel brevissimo momento della cessione, contemporaneamente a entrambe.
Perché una cosa ceduta tramite contratto sia considerata acquisita non è sufficiente l'accettazione della promessa: occorre anche la consegna. La necessità di quest'ultima è dovuta alla circostanza che il contratto ha ad oggetto non diritti reali, ma diritti personali: esso, dunque, può considerarsi eseguito solo quando il promittente ha compiuto la prestazione promessa.
Questa circostanza si comprende più facilmente quando il contratto non è un pactum re initum, nel quale io per esempio compro un cavallo e me lo porto a casa acquisendone immediatamente la proprietà, ma c'è un intervallo fra la sua conclusione e l'effettiva trasmissione del bene. In questo caso io accampo solo un diritto personale verso la parte venditrice e acquisisco il diritto reale sull'oggetto venduto solo una volta che l'ho ricevuto in consegna.
Il diritto personale di tipo reale è un'invenzione di Kant, costruita per regolare delle relazioni fra persone - dunque fra soggetti di diritto che devono essere pensati come liberi - che però si influenzano a vicenda in un modo più intenso di quanto avviene con i diritti personali definiti tramite contratto. I soggetti di questo diritto formano una società di esseri liberi che interagiscono reciprocamente e che sono parte di un intero detto comunità domestica. Conseguentemente il diritto personale di tipo reale è definito come il diritto del possesso di un oggetto esterno in quanto cosa e del suo uso in quanto persona.
Come persona sono un essere libero, vincolabile solo tramite contratto, ma come parte di una comunità domestica le pretese che i miei familiari hanno su di me sono più estese e intense di quelle contrattuali. Una via per rappresentarle sarebbe concepire la famiglia come una società naturale extragiuridica, basata sul fatto. Kant, però, sceglie un'altra strada. Per lui l'acquisizione di condizioni relative alla famiglia, a partire dalla sua formazione, non ha luogo né facto, né pacto: ha luogo lege. In altri termini:
non posso impadronirmi di una persona come se fosse una cosa, tramite un'acquisizione unilaterale;
il contratto, tuttavia, non è sufficiente a dar conto delle relazioni familiari:
esse, dunque, devono essere regolate direttamente per legge, ossia idealmente da tutti, in modo omnilaterale.
Il diritto personale di tipo reale riguarda infatti il diritto dell'umanità nella nostra propria persona: come tale, interessando tutti gli esseri razionali liberi ma finiti, deve essere riconosciuto a tutti indipendentemente e prima delle loro scelte, per tutelare la loro dignità senza ridurli sotto una gerarchia naturale da accettare come un dato di fatto indiscutibile. La famiglia, in altre parole, va trattata come una comunità morale, soggetta alle leggi della libertà e non a quelle della natura, 117 di interesse immediato di tutti gli esseri razionali che vogliono vivere in una condizione in cui il diritto sia perentorio.
L'acquisizione basata sul diritto personale di tipo reale è oggetto di una legge che è permissiva, come il postulato giuridico della ragion pratica. Possiamo immaginare un mondo popolato da esseri razionali che non hanno bisogno della famiglia perché vivono e nascono come purissimi spiriti; però, fra esseri razionali finiti e corporei, una legge permissiva ha lo scopo di render possibile secondo il diritto - e dunque regolare - il loro rapporto reciproco entro la società domestica. Secondo l'oggetto, tale acquisizione può essere:
di una donna da parte di un uomo;
di un figlio da parte di una coppia;
di un domestico da parte di una famiglia 118
Il diritto personale di tipo reale è detto da Kant "il più personale di tutti i diritti" perché coinvolge così intimamente le persone e le loro relazioni reciproche da essere inalienabile: non posso cioè vendere una moglie, un figlio o un domestico come se fossero delle proprietà, né posso trattarli come agenti con i quali ho soltanto un contratto che si esaurisce in una prestazione. Rimane, tuttavia, da capire se il linguaggio di Kant non riveli l'accettazione di una gerarchia implicita rintracciabile solo a posteriori, fra chi acquista e chi viene acquistato.
Kant prende le mosse da un dato biologico: l'unione sessuale come uso scambievole che un essere umano fa degli organi e delle facoltà sessuali di un altro, che è naturale quando può avere come effetto collaterale la riproduzione di propri simili, e innaturale in tutti gli altri casi. 119
Questa unione può essere un atto semplicemente conforme alla nostra natura animale, oppure secondo la legge. In questo secondo caso, si ha un matrimonio, che per Kant è semplicemente l'unione, che dura tutta la vita, di due persone di sesso diverso per l'uso reciproco delle loro prerogative sessuali. La procreazione non è il suo fine necessario: altrimenti, infatti, il matrimonio senza procreazione dovrebbe sciogliersi. Ma, indipendentemente dalla procreazione, il matrimonio è per Kant "un contratto necessario in virtù della legge dell'umanità": se un uomo e una donna vogliono avere rapporti sessuali devono sposarsi.
Kant applica al matrimonio in termine "contratto" ma la sua trattazione indica che non è un mero patto costituito da un accordo fra le parti secondo i loro arbitrii particolari: è qualcosa che tutti gli esseri umani devono scegliere per legge, se desiderano che le relazioni sessuali siano conformi alla loro dignità.
Nel rapporto sessuale, in quanto ciascuno si concede come oggetto per il godimento dell'altro, la persona si trasforma in cosa, lasciandosi strumentalizzare a questo scopo. Chi, infatti, fa uso di una parte del mio corpo fa uso della mia intera persona, disconoscendo la mia qualità di signore di me stesso. Per il diritto, che ha bisogno dell'esteriorità, io non sono il proprietario spirituale di un corpo che mi è connesso accidentalmente come un qualsiasi oggetto di diritto reale e di cui posso far commercio senza perdere la mia personalità: per il diritto io sono il mio corpo. Chi fa uso del mio corpo fa uso di me, perché la "mia" persona non è una collezione di oggetti separabili da me, bensì un'unità assoluta
Secondo Kant, il matrimonio sana la reificazione implicita nel rapporto sessuale in primo luogo rendendola reciproca: io cedo me stesso al pari di una cosa, ma allo stesso tempo acquisisco l'altro, ristabilendo la mia personalità. A ben guardare, però, la reciprocità non sarebbe una condizione sufficiente a evitare la strumentalizzazione. Se, per esempio, vendessi un mio rene a qualcuno, la lesione della mia dignità non verrebbe affatto sanata dalla circostanza che l'acquirente del mio rene si sia a sua volta auto-strumentalizzato vendendomi un polmone. Non si può por rimedio a un'ingiustizia con un'altra ingiustizia - tanto più che il matrimonio, per Kant, comporta che il coniuge possa riprendere il compagno che scappa proprio come si riprende un oggetto di proprietà che ci è sfuggito di mano.
Alla reciprocità, dunque, deve aggiungersi un'altra circostanza, il matrimonio stesso, che non è un contratto con il quale si cedono dei diritti reali, ma un patto che forma una comunità: è nell'essere soggetti giuridici entro la comunità domestica - perché per formarla bisogna esserlo - che i coniugi ritrovano la loro personalità. È per questo, dunque, che Kant sostiene che per avere rapporti sessuali in modo conforme al diritto è indispensabile sposarsi.
Tutti i rapporti di possesso interni al matrimonio, in virtù del suo carattere comunitario, devono essere basati sull'uguaglianza, sia quando tale possesso ha oggetto le persone, sia quando ha oggetto i beni di fortuna. Nel secondo caso è possibile derogarvi tramite uno speciale contratto, mentre nel primo no. La proprietà (dominium) di beni materiali particolari, infatti, ha con la mia personalità giuridica un rapporto solo accidentale, perché io posso privarmi di qualche bene senza perdere nulla di quanto concerne la mia libertà. Ma quando si tratta del proprio corpo, chi è signore - e non padrone - di sé può accettare solo un possesso reciproco entro un patto ugualitario, perché un contratto disuguale comporterebbe una strumentalizzazione della parte svantaggiata a favore di quella avvantaggiata.-
Per Kant, pertanto, sono ingiusti - e dunque non vincolanti - tutti i patti sull'uso del corpo che comportano condizioni disuguali:
la poligamia, in quanto non è uno scambio reciproco paritario perché la persona che si concede interamente ottiene in cambio soltanto una parte dell'altro;
il concubinato, sia duraturo sia, e a maggior ragione, momentaneo, che è per Kant un contratto di appalto (Verdingung) 120 con il quale qualcuno cede tramite contratto una parte del suo corpo per l'uso di un altro, senza però formare una società, trattando dunque se stesso alla stregua di uno strumento - perché chi usa una parte della persona usa la persona.
il matrimonio morganatico che esclude la moglie e gli eventuali figli dai titoli e dai beni del marito. 121
Nella parte conclusiva del paragrafo (279) Kant si chiede se la legge (Gesetz) secondo la quale l'uomo deve essere il signore della donna, in quanto lui è la parte che comanda e lei quella che ubbidisce, sia in contrasto colla natura giuridicamente ugualitaria del matrimonio, su cui egli stesso aveva insistito.
Ciò non può essere considerato contrario all'uguaglianza naturale di una coppia di esseri umani, se a questa signoria sta a fondamento la naturale superiorità della capacità dell'uomo rispetto alla donna per il conseguimento dell'interesse collettivo della comunità domestica e del diritto al comando basato su di esso - diritto che può derivarsi dal dovere dell'unità e dell'uguaglianza in vista del fine.
Kant ha appena rigettato il matrimonio morganatico in quanto contrario al diritto, perché impone alla comunione domestica una disuguaglianza basata su una differenza non giuridica, bensì sociale. Come può Kant accettare, immediatamente dopo aver scritto queste righe, una disuguaglianza secondo una "legge" in base a una "naturale superiorità di capacità"?
Il brano appena citato può evitare la contraddizione solo se il primo dei due "naturale" da me posto in corsivo significa "conforme al diritto secondo ragione", mentre il secondo significa "fattuale". Così letto, il testo direbbe che la legge della signoria dell'uomo sulla donna si basa sulla sua naturale superiorità di capacità, ed è giustificata dal comune interesse allo scopo della comunità domestica. Uomo e donna sono uniti e uguali in vista di tale fine, ma l'efficacia della prassi della sua attuazione riposa sulla loro disuguaglianza naturale, per la quale il primo deve comandare e la seconda obbedire. Se questo fosse l'argomento di Kant, il dovere di ubbidienza della donna sarebbe fondato solo su un imperativo ipotetico, dipendente da un fatto della natura: se l'uomo non comandasse e la donna non ubbidisse la comunità domestica smetterebbe di funzionare.
A prescindere dalla circostanza che questa tesi riposa sulla contaminazione empirica di una struttura che dovrebbe essere solo formale, 122 ci dobbiamo chiedere se l'assolutizzazione di questo fatto trovi o no riscontro, più che nei testi antropologici, negli scritti politici di Kant. Una cosa, infatti, sono le convinzioni antropologiche del filosofo, un'altra la scelta di farne un uso giuridico e politico e trasformarle in norme.
Nel saggio sull'illuminismo, pubblicato nel 1784 (Ak VIII, 035), Kant scrive che fra quanti rimangono minorenni a vita, rinunciando a pensare da sé, ci sia anche "tutto il gentil sesso": ma se la condizione di minorità delle donne fosse di carattere naturale e non socio-culturale, non avrebbe senso deplorarla. A una minorità che dipende semplicemente da un difetto di intelligenza (Ak VIII, 035) non si potrebbe, infatti, por rimedio.
Nel primo articolo definitivo della Pace perpetua Kant introduce, con una notevole innovazione rispetto a quanto scritto nel 1793, il principio dell'uguaglianza di tutti in quanto cittadini: i diritti politici devono essere riconosciuti a tutti i membri della società civile perché tutti, in quanto esseri liberi, sono tenuti a obbedire solo a leggi a cui avrebbero potuto dare il loro consenso. Non occorre più, dunque, possedere qualità particolari per esercitare il diritto di voto: se la repubblica è secondo ragione, e se c'è una legge della ragione, qualunque essere razionale finito le dovrà essere ugualmente sottoposto - indipendentemente dal fatto che sia un essere umano o un'entità che gli è superiore, come un grande eone. Se la legge è una e se - potremmo aggiungere, da lettori della Metafisica dei costumi - se è diritto in senso stretto non c'è nessuno motivo per attribuire all'eone il diritto di comandare e all'essere umano il dovere di obbedire. Quanto vale a proposito di esseri umani e eoni può essere esteso, a fortiori, al rapporto fra uomo e donna.
Poiché Kant stesso nega che le donne siano naturalmente poco intelligenti e riconosce che il diritto in senso stretto non si può fondare su una gerarchia fra chi comanda e chi ubbidisce, la signoria dell'uomo sulla donna nella Metafisica dei costumi non è solo storicamente contingente: è anche giuridicamente incoerente. Se il filosofo avesse saputo depurare la sua visione dalla contaminazione storico-empirica, avrebbe potuto costruire un argomento formale molto potente a favore del femminismo dell'uguaglianza.
Il contratto matrimoniale trova compimento solo in virtù della coabitazione dei due coniugi. Questa condizione è per Kant essenziale, in virtù del suo carattere di diritto personale di tipo reale per il quale:
non può aver luogo solo facto, con il mero rapporto sessuale, perché le persone non si possono trattare come cose;
non può aver luogo solo pacto, come un accordo senza coabitazione, perché sarebbe un contratto come gli altri;
deve aver luogo lege, con modalità predeterminate che non dipendono dal fatto o dalla scelta delle parti, perché è finalizzato a rendere giuridica - o giusta - una relazione che altrimenti si ridurrebbe a strumentalizzazione.
Il dovere del sostentamento e della cura dei figli da parte dei genitori deriva direttamente dal dovere dell'uomo verso se stesso, cioè dal rispetto della propria dignità di essere razionale libero capace di darsi il suo proprio senso da sé. I figli, a loro volta, hanno un diritto originario e innato di essere curati da parte dei genitori finché non sono capaci di mantenersi da sé. Anche in questo caso tali dovere e tale diritto viene conferito lege: un mondo in cui la dignità dei bambini non fosse protetta indipendentemente dall'arbitrio dei genitori sarebbe infatti incapace di riconoscere anche la dignità degli adulti.
L'essere generato è infatti una persona che è stata messa al mondo senza il suo consenso, e di fronte alla quale i genitori sono responsabili, al punto di doversi anche sforzare di renderlo contento della sua condizione: se ho scelto di metterti al mondo senza chiedertelo, ho il dovere di operare affinché la scelta che io ho fatto per te possa alla fine risultarti accettabile.
Hobbes (De Cive, IX.2) scriveva che allo stato di natura il bambino era soggetto al potere della madre la quale, avendolo generato, era libera di allevarlo o di disfarsene, e che comunque sarebbe stato educato a essere il suo servo per non rischiare di diventare il suo nemico. Nella società civile invece, poiché ne sono cittadini i padri che governano le loro famiglie, la signoria sul figlio passa a chi ha il potere. Kant, di contro, sostiene che i bambini non possono essere trattati come artefatti prodotti dal genitori e dunque di loro proprietà, e tanto meno possono essere abbandonati al caso.
In quanto il bambino è un soggetto di diritto, come tale dotato del diritto innato alla libertà, i genitori non possono trattarlo come un mero essere del mondo (Weltwesen): devono trattarlo come un cittadino del mondo. Kant connette immediatamente chi viene al mondo senza averlo potuto scegliere al diritto cosmopolitico perché, riconoscendone la libertà,
non può ridurlo a una produzione di proprietà dei genitori, o, specificamente, della madre;
non può trattarlo come cittadino di uno stato, cioè come membro di una società civile particolare che non ha avuto modo di scegliere;
e può solo riconoscerne la potenziale razionalità e libertà nella cerchia più grande e momentaneamente più indeterminata, la società dei cittadini del mondo
La dignità di un bambino che nasce - il suo essere fine in sé e non mero mezzo per altri - consiste in altre parole nel riconoscimento che il suo senso non sta necessariamente nella famiglia in cui viene concepito o nello stato in cui gli capita di trovarsi, ma nel mondo intero, cioè nella comunità degli esseri razionali attuali e possibili che i genitori hanno il dovere di lasciargli aperta. Negare al bambino la sua qualità di cittadino del mondo per trattarlo come una risorsa umana al servizio della famiglia, dello stato o di qualche altra aggregazione particolare significa disconoscere l'indeterminata potenzialità di diventare, creando da sé il proprio senso, qualcosa di diverso e migliore di ciò che l'ha determinato nel fatto.
Le tesi di Hobbes sul rapporto fra genitori e figli si fondano sulla rappresentazione dei figli come meri esseri del mondo, e come tali trattabili alla stregua di prodotti 123 oggetto di proprietà. Kant non può condividere la posizione di Hobbes perché
un soggetto di diritto è tale solo se possiamo pensarlo come libero
un soggetto libero, però, non può essere rappresentato come qualcosa di prodotto tramite un'operazione fisica, per il carattere teoreticamente trascendente del concetto di libertà. 124
Dal punto di vista pratico però, se di morale e non di natura vogliamo parlare, non possiamo mescolare il diritto e il fatto - alla maniera di Hobbes - per sostenere che il bambino è tenuto a sottostare alla signoria di chi l'ha generato in quanto sua produzione. Se trattiamo una creatura come un prodotto, soggetto alle leggi della natura, non possiamo attribuirgli diritti e doveri. Hobbes lo fa, ma pagando un prezzo: il suo diritto, infatti, si risolve nella forza ed è, come tale, soltanto provvisorio perché strutturalmente privo di legittimazione.
Se, dunque, teniamo separato il diritto dal fatto, dobbiamo riconoscere che - dal punto di vista morale - il bambino è un essere libero che è venuto al mondo - in un luogo particolare del mondo, ed entro una particolare società - senza aver potuto esprimere il suo consenso. Proprio per questo i genitori hanno dei doveri nei suoi confronti; e proprio per questo il modo in cui viene trattato non è una questione di famiglia, ma riguarda la cerchia più ampia che possiamo immaginare, quella della società cosmopolitica.
Il carattere teoreticamente trascendente della libertà fa però sì che noi non riusciamo a capire come si possa generare un essere dotato di libertà tramite un'operazione fisica. Kant, in nota, osserva che la stessa questione si è posta anche sul piano teologico: come può Dio creare un essere libero, la cui esistenza e struttura però dipende dalle sue scelte? Come possiamo intendere l'atto della creazione senza trattarlo come il primo anello di una catena di necessità naturali e senza negare la libertà di quanto è creato?
La risposta a questa domanda, in Kant, è soltanto pratica: noi conosciamo la nostra libertà a partire dall'imperativo categorico, in quanto sua condizione di possibilità: ma questa postulazione non si incarna in nessuna descrizione, perché non dipende dalla nostra esperienza sensibile, bensì da una nostra operazione intelligibile o sovrasensibile. E se si rimane all'intelligibile, si può evitare la contraddizione, sebbene a prezzo di una frattura fra quanto conosciamo teoreticamente e quanto postuliamo praticamente. Una cosa, infatti, è applicare la categoria di causa solo come relazione intelligibile, per dire che dal punto di vista pratico-morale la responsabilità della nascita del figlio ricade sul genitore, un'altra, e ben diversa, è applicarla a oggetti sensibili inserendola nel tempo tramite uno schema per raccontare la storia della determinazione causale di una persona da parte di un'altra. 125
In altri termini, la categoria di causa nel diritto personale di tipo reale si applica solo a relazioni intelligibili, per attribuire ai genitori delle responsabilità morali che tuttavia non è possibile spiegare teoreticamente senza negare la libertà degli agenti e dunque la loro stessa responsabilità. Se il modo in cui siamo moralmente dipendesse da dove siamo - naturalmente - nati, non saremmo più nella filosofia di Kant, ma in quella di Hobbes. 126
Di conseguenza, i genitori, per far valere la loro responsabilità sul figlio, hanno il diritto di comandarlo, manipolarlo e formarlo finché non acquisti la capacità fisica e intellettuale di mantenersi da sé; e hanno anche il diritto di educarlo moralmente, perché sarebbero responsabili della sua trascuratezza. Una volta che il figlio si è emancipato dai genitori, questi non hanno più il diritto di comandarlo e non possono pretendere da lui nessun risarcimento per le cure prestategli. La gratitudine del figlio, infatti, è solo un dovere di virtù: nessuno può obbligarlo a essere grato per una vita che non ha potuto scegliere.
Il diritto dei genitori è un diritto personale in quanto insiste su una persona e come tale è inalienabile: i figli, a differenza delle proprietà dei genitori, non possono essere venduti. Il genitore, però, può andare a riprendere il figlio che scappa di casa: questo è l'aspetto reale del suo diritto, per il quale non può ridursi a un contratto. Anche qui il titolo misto serve a tutelare soggetti deboli che vengono al mondo senza il loro consenso e le cui relazioni con i genitori superano i presupposti del contratto stesso - serve, cioè, a sottrarli al trattamento proprietario che Hobbes aveva coerentemente teorizzato per loro.
La casa di cui si occupa il titolo terzo è l'oikos della civiltà preindustriale: non una famiglia costruita e fondata su scelte almeno nominalmente affettive, ma un'azienda familiare, nucleo primario dell'oikonomia ancora nel suo senso etimologico di amministrazione domestica. Le relazioni che hanno luogo nel suo ambito sono di tipo despotikos nel senso in cui lo intendeva Aristotele. Anche nel testo di Kant il protagonista di queste relazioni è l'Hausherr, il pater familias o, letteralmente, il signore della casa. La famiglia dell'età preindustriale era il regno della necessità e della subordinazione naturale, perfino quando entro comunità politiche che si intendevano composte da cittadini liberi almeno nel senso della libertà degli antichi. Varrebbe, certamente, la pena di indagare se l'emancipazione industriale dell'economia dalla casa e la sua trasformazione in "economia politica" l'abbia effettivamente emancipata anche dalla necessità e dalla soggezione, o se invece, con la pretesa dell'economia di assimilarsi a una scienza fisica, non abbia esportato le sue gerarchie presunte naturali nella sfera stessa della politica. Anche per questo, la riflessione della Metafisica dei costumi nella sua inattualità è di particolare interesse, soprattutto perché pochissime pagine dopo il suo testo cita fra virgolette e per nome Adam Smith (289).
Il §30 esordisce con un'emancipazione: i figli, che formano con i genitori una famiglia 127 diventano maggiorenni o signori di se stessi (sui iuris) quando acquistano la capacità di mantenersi da soli, in parte per un processo naturale di maturazione, e in parte sulla base delle peculiari disposizioni di ciascuno. L'età esatta in cui avviene questa transizione non è indicata, proprio perché non dipende esclusivamente dalle leggi della natura.
L'emancipazione, che conduce allo scioglimento della società domestica, non ha bisogno di un contratto o di altro atto giuridico particolare: avviene lege, per legge, nello stesso modo cioè in cui erano stati conferiti i diritti e i doveri dei genitori, a tutela della parte più debole. Genitori e figlio riottengono o ottengono la loro libertà naturale secondo ragione: i primi sono sollevati dall'obbligazione di mantenerlo e curarlo, e il secondo da quella di obbedire, senza però dover loro giuridicamente niente per quanto ricevuto. La famiglia composta dai genitori con i figli minorenni non deve dunque essere intesa come un'organizzazione economica.
All'oikos corrisponde invece quella che Kant chiama societas herilis o padronale, formata, tramite un contratto. dai servi e dai figli maggiorenni: si tratta di una società domestica non ugualitaria in cui c'è un signore che comanda e dei subordinati che ubbidiscono.
I servi sono risorse umane al servizio del padrone di casa, che li controlla come delle cose e può riprenderli se scappano senza valutare, preliminarmente, le loro motivazioni ed esaminare il loro diritto: questo, formalmente, è il lato reale del diritto padronale. Tuttavia, poiché la materia del contratto di lavoro domestico ha a oggetto delle persone, esso non può essere un contratto di schiavitù. In generale, per Kant, un contratto di questo tipo sarebbe come tale nullo e senza valore legale perché contraddittorio. 128 Se io, infatti, rinuncio interamente alla mia libertà a vantaggio di altri, smetto di essere una persona soggetto di diritto e, coerentemente, non posso più avere il dovere di rispettare un contratto che, all'atto della firma, ha eliminato proprio ciò che mi rendeva giuridicamente possibile concluderlo. L'unico "dovere" che mi rimarrebbe sarebbe quello di riconoscere la forza: ma qui, nuovamente al modo di Hobbes, non saremmo più nel diritto bensì nel fatto: lo schiavo non ubbidisce al padrone perché è solo suo dovere farlo, ma solo perché e fin tanto che il padrone tiene in mano la frusta.
La servitù, dunque, non deve essere schiavitù: per quanto il padrone impieghi i servo come una risorsa umana, questo uso non deve diventare un abuso, e va sottoposto a due limitazioni:
la servitù dovrà stabilire assieme al padrone che cosa s'intenda per uso e per abuso
il contratto fra servo e padrone può essere tutt'al più a scadenza indeterminata, ma mai a vita, in modo che le parti possano liberamente rescinderlo
Mentre veniva scritta la Metafisica dei costumi, il sindacalismo, nell'Inghilterra della Rivoluzione Industriale, stava muovendo i suoi primi passi, contro il diritto positivo vigente. L'economia, uscendo dalla casa, andava divenendo politica, senza per questo por fine alla subordinazione e alla strumentalizzazione prima confinate fra i suoi muri: Kant, cercando di ricondurla a diritto in un'analisi forse meno tradizionale di quanto lasci trapelare il suo vocabolario, ne sembra consapevole
L'aggettivo "dogmatico" nell'uso di Kant significa "dottrinario" nel senso di pertinente ai princìpi fondamentali di una teoria. Una dottrina metafisica del diritto, in quanto organizzata su princìpi a priori, è in grado di costituire un sistema, vale a dire un'unità strutturata in un intero le cui parti si integrano e si spiegano a vicenda. 129 Un sistema può essere diviso logicamente in modo completo e determinato, perché la struttura che contiene le sue parti è organica. Ciò lo distingue da una partizione empirica che viene costituita per aggregazioni successive, senza che nessuna aggiunta dia la certezza di essere arrivati alla fine. Per Kant è possibile produrre una divisione dogmatica, cioè basata su una dottrina fondamentale. solo procedendo a priori, secondo un criterio, e non invece a posteriori, raccogliendo via via quello in cui ci si imbatte.
Dogmaticamente, dunque, i diritti acquisibili per contratto si basano sulle due componenti oggettive strutturali del contratto stesso:
promessa
accettazione
Oggettivamente, per avere un contratto bastano solo una promessa e la sua accettazione, perché nel mondo del dover essere la promessa ha oggettivamente come conseguenza giuridica necessaria il suo mantenimento. Soggettivamente, però, a meno che non si tratti di un pactum re initum, essa è oggetto di incertezza, proprio per la separazione nel tempo fra il momento della promessa e quello della sua esecuzione. Per questo motivo al promittente e all'accettante si può aggiungere una terza persona, il garante, il quale propriamente non apporta nulla di nuovo al contenuto del contratto: offre solo dei mezzi costrittivi per pervenire a quanto ci spetta.
Kant pensa che a priori i contratti costruiti secondo leggi di ragione siano - sulla base del loro scopo - soltanto tre: 130
Contratto gratuito (acquisizione unilaterale)
Contratto oneroso (acquisizione reciproca)
Contratto di alienazione
permuta (scambio di merce contro merce)
compravendita (scambio di merce contro denaro)
mutuo (prestito di cose a condizione che la restituzione avvenga tramite cose della stessa specie) 131
Contratto di locazione (locatio conductio)
locatio rei (affitto o nolo di una cosa) 132
locatio operae (prestazione d'opera da parte di una persona a favore di un altro in cambio di un prezzo stabilito, cioè un salario o merces)
mandato o contratto di delegazione, vale a dire amministrazione degli affari in luogo e in nome di un altro
gestio negotii o amministrazione senza procura (al posto di un altro, ma non in suo nome)
mandato in senso stretto (il delegato o mandatario è autorizzato ad agire in nome del delegante o mandante)
Contratto di garanzia (cautio)
dare o ricevere in pegno (garanzia di un'obbligazione tramite la cessione temporanea di una cosa)
fideiussione (garanzia della promessa di un altro tramite un'obbligazione accessoria rispetto a quella principale)
Kant osserva che, anche se egli stesso, presentando questa tabella, ha addotto esempi con oggetti dell'esperienza, quali il grano per illustrare il mutuo, tali esempi riguardano però la materia dello scambio. Riguardano, cioè, il suo contenuto, che potrebbe essere basato su convenzioni empiriche, e non la sua forma, vale a dire la struttura intelligibile per la quale ciò che è mio viene trasferito ad altri. Una classificazione sistematica, tuttavia, per i motivi già addotti, deve far astrazione - evitare di considerare - da tutti gli aspetti materiali di tali trasferimenti. Ci sono però due concetti, quello del denaro in quanto opposto a tutte le altre cose alienabili (merci) e mezzo per il loro commercio, e quello del libro in quanto medium per la circolazione delle idee, che gli appaiono meritevoli di riflessione, allo scopo di depurarli da contaminazioni empiriche e ridurli a relazioni puramente intelligibili.
Per Achenwall, il denaro è una cosa che si può usare soltanto in quanto la alieniamo. 134
Secondo Kant questa definizione, pur formulata da un autore che cita spesso, è soddisfacente solo secondo il nome: essa, cioè, permette di distinguere il denaro da tutti gli altri oggetti dell'arbitrio, ma non dice come esso sia possibile. La definizione di Achenwall, tuttavia, offre già di per sé alcune informazioni importanti:
l'alienazione in cui si fa uso del denaro non è tipicamente finalizzata alla donazione, ma all'acquisizione reciproca tramite contratti onerosi;
il denaro rappresenta tutte le merci perché, a differenza delle merci per suo tramite si comprano e si vendono, è in sé privo di valore e viene generalmente apprezzato da un popolo come mezzo per il commercio.
Kant per valore intende l'utilità di un oggetto, cioè la sua attitudine a rispondere ai particolari bisogni umani, dai più elementari connessi a prodotti immediati della natura fino ai più raffinati, connessi a artefatti realizzati dall'arte umana. La sua critica alla dottrina della felicità può far dedurre che la lista dei bisogni sia empirica e quindi indeterminata. Ma, mentre un moggio di grano è direttamente utile e ha dunque un valore immediato rispetto ai nostri bisogni, comunque si configurino, il denaro ha un valore solo indiretto. È, cioè, un mezzo massimamente utile per ottenere altro, ma di per sé non si può né usare né godere immediatamente.
Il riconoscimento del valore soltanto indiretto del denaro si può costruire una sua provvisoria definizione reale o secondo la cosa: il denaro è il mezzo universale per scambiare reciprocamente l'operosità umana. La ricchezza nazionale, in quanto somma dell'operosità umana acquisita mediante il denaro, è dunque rappresentata dal denaro stesso. Kant, si noti, non parla di scambio dei prodotti dell'operosità, ma di scambio di operosità (Fleiẞ): non si tratta, cioè, di una transazione fra cose, ma fra persone che offrono il proprio lavoro l'una all'altra. Questo modo di esprimersi è coerente sia con la sua riconduzione dei diritti reali a relazioni fra persone , sia con la sua riconduzione del contratto di compravendita avente ad oggetto diritti reali all'assunzione di diritti personali: i mercati, propriamente, devono essere pensati come rapporti fra persone, e non cose che vivono di vita propria. 135
Com'è possibile il denaro? La risposta provvisoria di Kant sembra abbracciare una teoria metallica della moneta: se il denaro è una rappresentazione dell'operosità umana finalizzata allo scambio, deve esserci un equilibrio fra il denaro circolante e le merci offerte al commercio. Infatti:
se procurarsi il denaro fosse più facile che produrre la merce che esso compra, l'operosità di produttori e imprenditori verrebbe disincentivata e si creerebbe - diremmo oggi - una situazione di stagflazione
il valore di banconote e assegni - che per questo non sono equiparabili al denaro - si fonda solo sulla convinzione che possano essere cambiati in qualsiasi momento in denaro effettivo (Barschaft), cioè in metalli dotati di un qualche valore
nel commercio mondiale il metallo d'elezione per la monetazione è l'argento, eventualmente in lega col rame, perché in quantità intermedia fra l'oro, troppo scarso per non essere d'interesse direttamente come merce, e il rame, troppo diffuso e facile da reperire.
metalli ed elementi diversi possono essere materiale per il conio di monete solo entro popoli con scambi commerciali ridotti.
La trattazione di Kant sembra molto simile a quella degli economisti classici: il valore di una merce è connesso all'operosità umana, cioè al lavoro; quello della moneta alla sua fabbricazione con una merce particolare - un metallo prezioso - che non sia troppo facile da reperire in modo da non deprimere il mercato. E l'ultimo capoverso della sezione (289) cita quasi alla lettera il IV capitolo del primo libro di The Wealth of the Nations di Adam Smith. Nel testo di Smith, tuttavia, si legge una narrazione dell'origine della moneta diversa da quella contenuta nella Metafisica dei costumi.
Secondo Smith, in una fase primitiva della storia umana in cui però si erano già stabilite la divisione del lavoro e il conseguente mercato, ci si rese conto che il sistema di scambio in uso, il baratto, era assai scomodo. Si cominciarono quindi a usare come mezzo di scambio alcune merci appetite da tutti, fra le quali alla fine emersero i metalli. Questi ultimi, infatti, avevano il vantaggio di essere relativamente rari, durevoli e divisibili. Tuttavia, il loro uso comportava ancora delle scomodità, perché si doveva pesarli e controllarne l'autenticità. Si istituirono pertanto le zecche, con il compito di attribuire ad essi un conio, cioè una marchiatura che ne certificasse il valore, sotto il controllo dello stato.
Smith racconta la storia di come una presunta società primitiva, ma - similmente allo stato di natura di Locke - già organizzata secondo proprietà privata, divisione del lavoro e mercato, 136 e con una moneta già circolante, abbia attribuito allo stato il compito di garante.
Kant, invece, connette la moneta a un'imposizione: un grande consumatore di una certa merce originariamente di uso ornamentale, investito di potere politico, impone ai sudditi di pagare le tasse con essa, e li ricompensa allo stesso modo. La moneta, qui, non è l'esito di un'evoluzione spontanea, immaginabile perfino in una condizione naturale, a cui si aggiunge lo stato come mero garante: è una costruzione politica. Chi è in grado sia di esigere tributi sia di essere un centro di spesa consistente impone la sua moneta.
Soltanto in questo modo, a mio avviso, una merce è potuta diventare un mezzo legale della circolazione reciproca dell'operosità dei sudditi e con ciò anche dello stato, cioè denaro. (288)
Il collegamento del denaro al lavoro, in altre parole, non è per Kant l'esito di un processo spontaneo, oggetto di economia politica: è frutto di una determinazione di politica economica. 137
Kant affida la definizione reale definitiva del denaro a una citazione a memoria, e leggermente distorta, di Adam Smith: "Il denaro è dunque (secondo Adam Smith) quel corpo la cui alienazione è allo stesso tempo il mezzo e la misura dell'operosità con cui esseri umani e popoli commerciano fra loro." È, cioè, mezzo in quanto è medium dello scambio, che permette di acquistare qualsiasi oggetto; ed è misura in quanto permette di fissare dei prezzi. 138
Il denaro si può usare soltanto alienandolo perché permette di compiere permutazioni fra le laboriosità di diverse persone e di determinare, in questi scambi, il prezzo di ogni altra cosa. Il prezzo, infatti, emergendo solo nei rapporti di scambio, rappresenta solo la valutazione sociale attribuita a un oggetto. La quantità di denaro che un popolo possiede costituisce la sua capacità collettiva di mobilitare lavoro e ricompensarlo. Dal punto di vista di chi ha il potere di battere moneta, questa capacità è ricchezza dello stato, cioè denaro (Staatreichtum, d.i. Geld, 288); se invece immaginiamo il denaro come disponibile nel popolo, esso rappresenta la sua opulenza (Begüterung).
Il carattere generale e rappresentativo del denaro - il fatto cioè che con esso si possa acquistare qualsiasi merce - permette di pensarlo come elemento non materiale. bensì formale del contratto, e di non intaccare la divisione dei diritti acquisibili per contratto con aspetti empirici: il denaro, infatti, è la forma di ciò che nel contratto si scambia, vale a dire la disposizione a lavorare per l'uno e per l'altro. In altre parole, poiché i contratti per Kant hanno sempre ad oggetto dei diritti personali, ciò deve valere anche quando comportano un pagamento in denaro, perché quest'ultimo rappresenta la forma di prestazioni personali passate e future.
Per questo Kant tiene a differenziarsi da Adam Smith, per quanto concerne la storia dell'origine del denaro: per lui anche i sistemi monetari sono formalmente costituiti da rapporti fra persone. La circostanza che il denaro sia esito di scelte e di imposizioni politiche ha una rilevanza anche formale. Kant non dissente con Smith sulla funzione del denaro: dissente sulla sua storia ideale e - di conseguenza - dissente sulla sua politica. 139 La sua economia, in altre parole, non è naturale in quanto esito di un ordine spontaneo e non progettato da nessuno, ma politica, perché costruita da rapporti fra persone e da scelte collettive determinate dallo stato e dunque sotto la giurisdizione morale delle leggi della libertà.
Anche la sezione conclusiva si propone di ricondurre a forma, cioè a rapporti oggetto di diritto personale, il libro come medium del commercio delle idee, distinguendolo dal suo aspetto materiale, oggetto di diritti reali. A questo scopo Kant rielabora e depura quanto aveva già trattato in un testo del decennio precedente, L'illegittimità della ristampa dei libri (1785), che ho già analizzato dettagliatamente nell'annotazione alla sua traduzione italiana, nella quale spero di aver dimostrato con sufficienti argomenti che Kant non può essere annoverato fra i precursori della cosiddetta proprietà intellettuale.
Anche nel caso del libro, come nel caso del contratto d'affitto, 140 entrano in concorrenza due tipi di diritti: i diritti reali sul libro come artefatto materiale e quelli personali sul testo in esso contenuto, che Kant intende come uno scritto il quale rappresenta un discorso diffuso al pubblico tramite la mediazione di un editore.
Se considero il libro come oggetto materiale, la ristampa senza autorizzazione da parte dell'autore deve essere legittima: quando sono divenuto proprietario di un oggetto, posso farne quello che voglio – perfino copiarlo. Sotto il secondo aspetto, quando vedo il libro come vettore di un discorso, può parlare a nome mio soltanto l'editore che lo stampa con la mia autorizzazione. Il ristampatore che diffonde al pubblico il mio discorso senza avere il mio mandato non mi priva di una cosa che è mia; prende semplicemente la parola a mio nome senza che io glielo abbia concesso. Non mi sta rubando qualcosa: mi mette, semplicemente, in una relazione col pubblico che io non desidero affatto intrattenere in quei termini. Non di diritto reale, dunque, si tratta, bensì di diritto personale. Il libro qui non entra in gioco come un artefatto particolare esito di una tecnologia storicamente collocata e dunque superabile, ma come strumento contingente di una relazione fra persone - lo scrittore, l'editore e il pubblico. I discorsi, anche se pubblicati in libri, non possono essere oggetto di proprietà perché sono azioni di persone e non cose soggette a un controllo proprietario.
Questa sezione è episodica, cioè isolata o occasionale, perché incidentale rispetto all'ordine sistematico dell'argomentazione. Essa riguarda un tipo di acquisizione che Kant chiama ideale, in quanto fondata su una semplice idea della ragion pura senza connessione con una causa che la preceda nel tempo.
Quando acquisto un cosa nello stato di natura comincio mettendoci le mani sopra per prenderla di fatto in mio potere; e quando ottengo un diritto personale nei confronti di qualcuno, o ottengo un diritto reale tramite un'acquisizione derivata, devo concludere un contratto. In entrambi i casi, anche se i diritti sono relazioni intelligibili, l'atto di acquisto è empirico, perché avviene in un certo momento nel tempo e in rapporto a persone esistenti.
I casi detti da Kant di acquisizione ideale non hanno invece un ancoraggio empirico perché si acquista da persone che finora non ci sono anche se si ammette la possibilità che ci siano (usucapione), o hanno appena cessato di esserci (eredità), o non ci sono più (pretesa a una buona reputazione dopo la morte). Queste figure giuridiche possono essere fatte valere solo entro una società civile già formata, ma non sono invenzioni del diritto positivo: secondo Kant sono di diritto di natura, nel senso che è possibile fondarle razionalmente. L'acquisizione è qui ideale perché il diritto regola sempre relazioni fra persone, ma può pensare relazioni, in quanto intelligibili, anche con persone esistenti soltanto idealmente. Kant sostiene che l'acquisizione ideale è vera e non immaginaria: rimane da capire perché un diritto secondo ragione, che però si occupa solo del rapporto esterno e pratico fra le persone, debba concepire acquisizioni da persone inesistenti.
L'usucapione consiste nell'acquisizione di una proprietà di qualcuno semplicemente in virtù del suo lungo possesso da parte di un altro. Kant intende questa acquisizione come sconnessa da ogni rapporto interpersonale effettuale: se il titolo d'acquisto della cosa è solo il suo lungo possesso, non ho bisogno né di un consenso tacito del proprietario originario, né della sua rinuncia all'oggetto. Perfino se il proprietario originario esistesse e si presentasse ad avanzare la sua pretesa dopo il termine di inizio dell'usucapione, io potrei rappresentarlo come un'entità soltanto pensata: la mia proprietà, infatti, non deriva da un rapporto con lui, bensì, viceversa, proprio dall'assenza di rapporti con lui. Questo tipo di acquisto è detto anche per praescriptionem , ma, secondo Kant, in modo non del tutto corretto. La prescrizione infatti è l'estinzione di un diritto non esercitato entro un certo periodo di tempo: qui però l'impossibilità di avanzare pretese sull'oggetto acquisito per usucapione non è dovuto all'assenza di esercizio di un diritto precedente, bensì all'acquisizione stessa. Ma come è possibile acquistare qualcosa da una persona assunta come giuridicamente inesistente?
Chi non esercita un atto di possesso (actus possessionis) continuo di una cosa esterna come sua viene considerato a buon diritto come niente affatto esistente (come possessore). (292)
Kant sostiene che per continuare a essere possessori in senso giuridico di una cosa bisogna affermarne il possesso con un atto altrettanto giuridico continuo nel tempo, che ne dia documentazione. Se, per assurdo, questa documentazione non fosse necessaria, non sarebbe possibile fondare un possesso di diritto incontestabile (possessio irrefragabilis) su un possesso di buona fede, vale a dire quello che ha luogo quando il possessore ignora di ledere un eventuale diritto altrui. Infatti se così fosse, l'ultimo possessore, per dimostrare che possiede la cosa a buon diritto, dovrebbe provare che l'ha ricevuta da un proprietario precedente, il quale a sua volta avrebbe lo stesso onere e così via fino all'atto di acquisto del primo possessore all'inizio della storia. Quanto ci è storicamente noto, però, è insufficiente a risalire a questo primo atto: di conseguenza, tutti i possessi giuridici sarebbero provvisori e nessuno perentorio, come nello stato di natura, perché potrebbe sempre presentarsi qualcuno a contestare la mia proprietà sostenendo di essere un proprietario precedente a me finora sconosciuto.
L'usucapione si fonda dunque su una presunzione che non è soltanto permessa dal diritto ma è anche praesumptio iuris et de iure, cioè una presupposizione secondo leggi coercitive. In altre parole, che mi spetti per usucapione quanto ho detenuto continuativamente perché l'ipotetico proprietario precedente non ha documentato il suo possesso non è solo un argomento lecito, ma è anche cogente in quanto presunzione legale.
Questa tesi di Kant è coerente con la sua rappresentazione del diritto reale come rapporto sociale fra persone a proposito di cose: dal momento che non è pensabile un rapporto fra la persona e la cosa originario e indipendente dal rapporto con gli altri, io rimango titolare della mia proprietà, evitando l'usucapione, solo se documento continuativamente il mio possesso. In una società civile lo stato, agendo come un rappresentante, può conservare la proprietà documentandola per me. Nello stato di natura l'usucapione serve invece a conservare il possesso in mancanza di un atto giuridico di acquisizione. Detto in altri termini: poiché non siamo capaci di ricostruire una serie storica continua di passaggi di proprietà, la ragione rappresenta il possesso legittimo come il subentrare a un proprietario inesistente, perché la relazione sociale che riconosce il possesso stesso si è in qualche punto del tempo interrotta. E compie questa operazione perché la proprietà non è un rapporto magico fra la persona e la cosa, ma sempre un rapporto fra persone - perfino, eventualmente, inesistenti.
Kant non si occupa, qui, della successione senza testamento, che ha bisogno di norme esplicite di diritto positivo e dunque della presenza di una società civile. Si occupa invece del trasferimento di beni e averi di un moribondo a chi gli sopravvive, in accordo con la volontà di entrambi, tramite una disposizione bilaterale (pactum successorium) o unilaterale (testamentum). Non è un trasferimento in senso empirico perché mancano la successione dei due atti di cui il primo lascia e il secondo prende: l'erede, infatti, prende possesso dell'eredità solo quando il testatore ha cessato di vivere. Per questo il trasferimento è ideale, in quanto luogo quando il defunto non c'è più.
La successione non è un contratto, che è un atto bilaterale il quale richiede una volontà simultanea di entrambe le parti contraenti. La sua accettazione, infatti, può essere compiuta dall'erede solo dopo la morte dell'altra parte.
Si può sostenere però che il futuro erede acquisisce in modo tacito il diritto ad accettare l'eredità in modo esclusivo. Si tratta di un tipo particolare di diritto reale che ha per oggetto l'eredità giacente e del quale si può supporre una accettazione tacita, dal momento che comporta anche la facoltà di rifiutare l'eredità stessa. Dopo la morte del testatore, la nozione di trasferimento ideale permette di rappresentare l'eredità non ancora accettata come semplicemente vacante invece che come res nullius, priva di proprietario.
Il trasferimento ideale permette inoltre di trattare l'eredità come una questione di diritto di natura, cioè come un rapporto fra persone pensabile senza lo stato, anche se solo nel senso che può essere inclusa e sostenuta in una società civile il cui diritto sia secondo ragione. La società civile infatti è indispensabile per garantire il possesso nel momento in cui l'eredità è vacante perché l'erede non l'ha ancora accettata o rifiutata. 141
Poiché il diritto opera nell'ambito del fenomeno, cioè nel mondo come appare ai nostri sensi, non possiamo immaginare che chi non è più al mondo possa possedere qualcosa. Il buon nome, però, non è un oggetto di proprietà: è legato al soggetto in quanto persona, inteso dunque nel suo senso intelligibile: mentre per godere di diritti reali, personali o personali di specie reale occorre esistere empiricamente, perché qualcuno abbia una reputazione non è indispensabile sapere se continua o no a esistere dopo la morte. La reputazione infatti riguarda l'homo noumenon, vale a dire l'umanità nella sua persona. La sua dignità di essere libero e razionale, infatti, concerne il modo in cui lo pensiamo e non la sua titolarità di diritti reali o personali - impossibile per chi non ha più esistenza fenomenica.
I rapporti giuridici sono del resto intelligibili e prescindono dal tempo, forma dell'intuizione sensibile. Una volta messo fra parentesi il tempo, chi calunnia un defunto cent'anni dopo la sua morte lo calunnia per sempre: per questo motivo chiunque possa provare la falsità delle sue accuse può denunciarlo pubblicamente come calunniatore e disonorarlo.
Sappiamo già che i diritti oggetto del diritto privato sono perentori esclusivamente in una società civile. Per questo, il diritto di natura conoscibile razionalmente e a priori da ogni essere umano comprenderà due forme di giustizia:
la giustizia commutativa, che vale negli scambi reciproci fra le persone
la giustizia distributiva, il cui ruolo è assicurare a ciascuno il mantenimento di quanto gli spetta di diritto
La necessità di uscire dallo stato di natura per assicurare a ciascuno ciò che gli spetta tramite la sentenza di un giudice terzo fra le parti appartiene al diritto secondo ragione, e non al diritto statutario, esito di legislazione positiva - anche se in concreto ciascuna istituzione giudicante sarà organizzata sulla base di norme di diritto positivo. Ma questo aspetto non viene qui considerato, perché si sta costruendo un modello indipendente dall'esperienza: qui basta sapere che la corte di giustizia (forum) che opera come tribunale che produce giudizi è una persona morale - cioè non fisica ma giuridica.
La corte di giustizia, però, anche se rappresentata idealmente, assume la prospettiva del diritto pubblico e non quella del diritto privato: ci può dunque essere un contrasto fra quanto, in una situazione in cui il tribunale non c'è, ciascuno giudica per conto suo e quanto invece è diritto davanti a un tribunale. Il tribunale, infatti, non può andare oltre ciò che è pubblicamente conoscibile: il suo verdetto può dunque in alcuni casi essere diverso da quanto sarebbe giusto in sé.
Nei paragrafi successivi Kant analizza quattro casi (donazione, comodato, rivendicazione di una cosa perduta, giuramento) in cui i giudizi sono diversi e contrapposti, allo scopo di evitare il vitium surreptionis comune fra i giuristi, i quali identificano con il giusto in sé, in senso oggettivo, il principio giuridico di cui il tribunale, per i propri limiti soggettivi, ha facoltà o è talvolta obbligato a far uso.
Subreptio è letteralmente l'atto di sottrarre di nascosto qualcosa. Nel linguaggio del diritto romano tardo indica l'introduzione di prove false in un procedimento legale. Nella tradizione razionalistica in cui si formò Kant designa più in generale la confusione fra le condizioni dell'esperienza e le condizioni di possibilità di un oggetto: in questo caso, dunque, fra le condizioni in cui si trova a giudicare una corte di giustizia e le condizioni del giusto in se stesso. 142
La donazione consiste in un contratto gratuito nel quale regalo ad altri una cosa o un diritto che mi appartiene. Anche se non c'è uno scambio, la donazione richiede un contratto perché il donatario deve accettare il regalo da parte del donatore. Tuttavia, dal momento che la donazione è un gesto di generosità unilaterale, non si può presumere che un donatore che cambia idea debba essere costretto a consegnare il suo dono (nemo suum iactare praesumitur) - cioè che un comportamento spontaneo e gratuito si trasformi in un atto obbligato.
Tuttavia, nello stato civile, una corte di giustizia non può fare presunzioni sulle intenzioni del donatore e deve considerare solo ciò che è certo, cioè la promessa del donatore e l'accettazione del donatario, e tratterà la donazione come un qualsiasi altro contratto, vale a dire riconoscerà al donatore la facoltà di recedere solo se è stata esplicitamente concordata nel patto di donazione.
Il contratto di comodato o prestito è un contratto gratuito con il quale io autorizzo qualcuno a usare qualcosa di mio senza pretendere un corrispettivo. Quando do in prestito una cosa pare scontato presumere che, nel momento in cui ne lascio l'uso a qualcun altro, non mi debba accollare anche la garanzia per eventuali danni subiti dall'oggetto mentre viene adoperato dal comodatario. Se per esempio prestassi a qualcuno un impermeabile per ripararsi dalla pioggia e questo, durante l'uso, venisse danneggiato o rubato, non si vede perché dovrei essere io ad accollarmene i danni, a meno che non l'abbia esplicitamente pattuito al momento del prestito.
Una corte di giustizia, invece, si trova a decidere, in mancanza di accordi espliciti, su un contratto incerto e su un consenso da parte del comodatario soltanto presunto: pertanto, quando nulla è stato pattuito in merito, considera solo chi è il proprietario della cosa prestata e fa pertanto ricadere il danno sul comodante e non sul comodatario. Anche qui, come nel caso della donazione, non perché sia di per sé giusto così, ma perché un giudice, dall'esterno, non può fare presunzioni sulle intenzioni di ciascuna delle parti.
In relazione a una cosa durevole nel tempo, la differenza fra diritto reale e diritto personale consiste nella circostanza che, quando godo del primo, posso rivendicare la cosa contro ogni possessore, cioè contro chiunque, diverso da me, si trovi a detenerla. Quando godo solo del secondo posso compiere questa rivendicazione solo nei confronti di una persona determinata. 143
Il diritto reale sulla cosa mi spetta, anche se non la tengo costantemente in mano, finché non me ne privo con un atto giuridico (alienazione o abbandono). Rimane però da capire se quando smarrisco la cosa e la ritrova qualcuno in buona fede ed è acquistata da chi non ne è il proprietario, posso reclamarla come mia conservando il diritto reale verso tutti, oppure mi rimane solo il diritto personale di rivalermi su chi l'ha venduta credendola propria.
Nello stato di natura chi compra qualcosa da chi non è proprietario (a non domino), per quanto la transazione possa essere avvenuta regolarmente e in un mercato in cui l'acquirente non poteva aver motivo di sospettare dell'irregolarità del titolo del venditore, non detiene un diritto reale legittimo secondo la giustizia commutativa, bensì solo un diritto personale di rivalersi su chi gli ha trasferito l'oggetto senza esserne proprietario. A rigore, dunque, nello stato di natura chi acquista dovrebbe controllare se il venditore è effettivamente proprietario di ciò che offre e, siccome è impossibile risalire l'intera serie dei sedicenti proprietari fino ad arrivare al proprietario originario, allora nessuna scambio di cose esterne può fondare un acquisto sicuro.
Dal punto di vista della giustizia distributiva, cioè di una corte di giustizia istituita nella società civile, la questione cambia: mentre nello stato di natura la provvisorietà è normale, la situazione civile è tale e si legittima nella misura in cui riconosce a ciascuno un possesso perentorio. Un diritto che allo stato di natura rimane meramente personale perché non si può rintracciare il proprietario originario qui si trasforma, per postulazione, in reale, a condizione che le forme dell'acquisizione siano state rispettate entro un mercato regolare. Il proprietario della cosa perduta, qui, non recupera il suo diritto reale ma gli viene riconosciuto solo il diritto personale di rivalersi nei confronti di chi ha alienato l'oggetto da lui perduto e da questi ritrovato.
Questo principio, pensato a favore della giustizia distributiva, è comunque per Kant puro e priori, e in grado di legittimare le varie norme di diritto positivo che lo sviluppano: se i tribunali assegnassero a ciascuno ciò che gli spetta in via soltanto provvisoria non ci sarebbe differenza fra società civile e stato di natura.
Non possiamo essere obbligati giuridicamente a credere in un Dio e a professare che esista, se non nel caso del giuramento con il quale, davanti a una corte di giustizia, ci impegniamo a dire la verità e a mantenere le promesse invocando, per l'eventuale trasgressione, la vendetta di una potenza superiore onniveggente. Per Kant questa pratica non ha a che vedere né con la moralità né con la religione, ma solo con la superstizione delle parti in causa. 144 Dovrebbe infatti essere chiaro, almeno per chi è onesto, che il dovere della veridicità è massimamente sacro, quando si discute del diritto degli esseri umani.
Questa usanza superstiziosa e immorale pare però indispensabile nell'amministrazione della giustizia perché la corte possa accertare fatti tenuti segreti ed emanare sentenze. Ma in base a che cosa sono obbligato a riconoscere il giuramento altrui come prova giuridicamente valida? Come faccio a sapere se chi giura ha un senso religioso interiore tale da poter affidare il mio diritto al suo giuramento? E in base a che cosa è lecito essere costretti a giurare?
Nello stato civile, davanti a una corte di giustizia, si deve assumere che tutti abbiano una religione che, in caso di emergenza (in casu necessitatis) possa essere usata come strumento di tortura spirituale per scoprire segreti. E tuttavia il potere legislativo, concedendo al potere giudiziario la facoltà di costringere a giurare, agisce ingiustamente, perché in violazione del diritto alla libertà. Kant considera equivoco ogni diritto fondato sulla necessità: anche in questo caso, lo strumento di costrizione, che interferisce con la libertà della coscienza e funziona solo su persone superstiziose e poco oneste, non è affatto in grado di costringere tutti allo stesso modo. 145
Lo stato giuridico 146 è quella relazione reciproca fra gli esseri umani che contiene le condizioni alle quali soltanto ciascuno può essere partecipe del proprio diritto.
Per essere partecipi del proprio diritto non basta far parte di un'unione civile (unio civilis) nella quale c'è qualcuno che comanda (imperans) e qualcun altro che è suddito: qui non c'è partecipazione perché i sudditi sono subordinati a chi comanda, e la legge dell'unione non è la legge di tutti, ma semplicemente quella che chi comanda impone a chi ubbidisce. Si diventa partecipi del proprio diritto solo se si è compagni o soci di una società di uguali sottoposti a leggi comuni, la cui costrizione non è unilaterale, bensì reciproca e pervasiva. Una società di disuguali, non composta da compagni bensì da superiori e inferiori, non è ancora una società allo stato giuridico.
Per avere una legge comune non basta una volontà legislatrice particolare - quella che chi comanda impone ai sudditi - ma occorre una volontà legislatrice universale, tale che tutti gli esseri razionali possano riconoscere come propria: lo stato giuridico non è in primo luogo una condizione di potere pubblico, bensì di giustizia pubblica, che si suddivide come illustrato nella tabella qui sotto.
Giustizia | Categoria della modalità | Legge |
---|---|---|
Iustitia tutatrix (giustizia tutelare) | possibilità | Lex iusti |
Iustitia commutativa (giustizia dell'acquisizione reciproca) | effettualità | Lex iuridica |
Iustitia distributiva | necessità | Lex iustitiae |
La giustizia dello stato giuridico non è una giustizia di persone bensì di istituzioni. Nella sua forma tutelare è la giustizia della legislazione che stabilisce la possibilità del possesso degli oggetti sulla base del principio della lex iusti, vale a dire la protezione della libertà e dignità dell'essere umano in quanto portatore di propri progetti e dunque non interamente strumentalizzabile al servizio di progetti altrui; nella sua forma commutativa rende effettuale questo possesso negli scambi e negli accordi fra i soggetti di diritto privato; nella sua forma distributiva lo rende infine necessario tramite la sentenza di un giudice terzo fra le parti dotato di potere coercitivo, che stabilisce nei casi particolari che cosa è conforme alla legge data.
Allo stato giuridico o civile si contrappone quello naturale: entrambe le condizioni sono sociali, ma con una differenza. Allo stato di natura possiamo immaginare molte società - coniugali, patriarcali, domestiche e di altro tipo - in nessuna delle quali, però, si è giuridicamente obbligati a entrare. Viceversa, tutti coloro che hanno o possono avere rapporti di diritto con gli altri devono entrare nella società civile, e lo devono fare a priori, perché le situazioni in cui gli esseri umani riconoscono il diritto e addirittura si associano in società ad adesione volontaria sono certamente situazioni di diritto privato, ma, proprio per il carattere solo volontario dell'adesione a esse, non sono in grado di offrir loro una garanzia perentoria e valida per tutti. Lo stato civile o stato di diritto pubblico non introduce doveri ulteriori: si limita a dare una forma giuridica alla coesistenza degli esseri umani tramite una costituzione pubblica.
Kant interpreta la distinzione fra giustizia commutativa e distributiva - fra giustizia dei contratti e quella del tribunale - in un senso istituzionale e non personale sulle tracce di un'innovazione proposta da Hobbes nel XV capitolo del Leviatano. 147 E però vi aggiunge la iustitia tutatrix, che corrisponde all'honeste vive a tutela del principio della libertà: in un sistema di risorse umane strumentalizzate e disposte a farsi strumentalizzare, nel quale la libertà fosse un impedimento e non un principio, un ordinamento giuridico effettuale garantito da un potere giudiziario efficiente sarebbe solo una macchina di costrizione sociale e non anche un sistema di tutela della dignità degli esseri razionali: rimarrebbe, perciò, privo di legittimità e dunque strutturalmente precario perché fondato sulla forza e non sul diritto secondo ragione.
Quando non puoi evitare di vivere fianco a fianco con altri, devi uscire insieme a loro dallo stato di natura per passare a uno stato giuridico, cioè a uno stato di giustizia distributiva.
Kant chiama questa formula postulato del diritto pubblico, e chiede di accettarlo perché deriva analiticamente dal concetto del diritto in quanto opposto alla violenza: senza l'istituzione di un giudice terzo fra le parti dotato di potere coercitivo nessuna controversia sarebbe risolvibile secondo il diritto invece che secondo la forza.
Per rendersi conto che lo stato di natura è sempre uno stato di guerra almeno potenziale non occorre esperirla in atto. Quando il diritto è senza garanzie, nessuno dei miei vicini può assicurarmi che rispetterà il mio possesso, essendo in ogni momento in grado di usare la forza, e dunque anch'io, da parte mia, non posso esser tenuto a dar loro una simile assicurazione.Perché mai dovrei farlo, se non c'è reciprocità?
A rigore, chi ricorre alla violenza in uno stato di natura privo di una legge pubblicamente riconosciuta non commette ingiustizia, ma si comporta come se avesse concluso un patto con tutti gli altri: se tu puoi usare la violenza contro di me, anch'io posso fare lo stesso contro di te. 148 E tuttavia accettare questa reciprocità e restare nello stato di natura è in generale (überhaupt) l'ingiustizia più grande perché significa preferire e perpetuare il regno del sopruso contro quello del diritto. Materialmente - spiega Kant in una nota - se intendiamo la giustizia come un bilanciamento di atti particolari, il nemico che, per esempio, viola le condizioni della resa attaccando gli assediati mentre lasciano disarmati la fortezza non potrà lamentarsi di subire ingiustizia se gli avversari faranno poi lo stesso con lui: ma se consideriamo le condizioni formali o strutturali della giustizia questo comportamento è radicalmente ingiusto perché non solo non rispetta un patto, ma, rifiutando di entrare in un sistema pubblico di garanzie, abbandona il mondo alla violenza selvaggia perché distrugge in radice la stessa possibilità di un diritto degli esseri umani. 149
[ 84 ] Kant, a differenza di Institutiones 2.1.12, non dà per scontato che "quod enim ante nullius est id naturali ratione occupanti conceditur" (ciò che prima non appartiene a nessuno è concesso per diritto naturale a chi lo occupa) e lo fa precedere da un postulato che lo fondi, ancorché solo per postulazione e non per dimostrazione.
[ 85 ] L'esposizione (Critica della ragion pura Ak III, 479 ss) è una definizione incompleta, fondata su esempi. In filosofia, infatti, non si può partire dalla definizione, come in matematica, perché si lavora su concetti dati e non costruiti. L'esposizione completa o definizione può trovarsi solo alla fine del cammino. Per capire che cosa intende dire Kant, basta ricordare qualche dialogo platonico dedicato al problema di definire concetti di uso comune, quali virtù o pietà religiosa. I molteplici tentativi di indicare che cosa significano quei concetti sono esposizioni parziali: la definizione, se ci si arriva, giunge soltanto alla fine. Anche in questo testo la definizione segue, nel paragrafo successivo, all'esposizione.
[ 86 ] In un'obbligazione il soggetto a cui è dovuta la prestazione ha un'obbligazione attiva; colui che la deve ha invece una obbligazione passiva.
[ 87 ] Pactum re initum: contratto che comincia nel momento in cui inizia la prestazione.
[ 88 ] Il godimento empirico di una prestazione avviene nello spazio e nel tempo, qui e ora, mentre la prestazione a cui ci si è impegnati con una promessa può essere spostata in un tempo diverso da quello della promessa perché l'impegno non è un vincolo sensibile, in atto solo qui e ora, bensì intelligibile. Proprio per questo si può far cadere in contraddizione chi si rimangia oggi la promessa fatta ieri. Sul piano teoretico, dire "A" e "non A" in due momenti diversi può di per sé essere conforme al principio di non contraddizione, per esempio perché, nel corso del tempo, chi parla riconosce di aver cambiato idea, o descrive una situazione empirica che è nel frattempo mutata. Invece rinnegare una promessa viola il principio di non contraddizione perché i due enunciati "mi impegno a fare X" e "non mi impegno a fare X" vengono confrontati esclusivamente in quanto elementi di un rapporto giuridico, intelligibile.
[ 89 ] Per quanto le due definizioni sembrino molto simili, c'è una differenza importante: la definizione reale specifica che il possesso giuridico è intelligibile e non sensibile.
[ 90 ] Kant precisa che anche nel possesso fenomenico il suo oggetto non va trattato come fenomeno, cioè come ciò che appare ai nostri sensi, bensì come cosa in sé, pensata come dotata di una sua sostanza al di là delle nostre rappresentazioni. Qui, infatti, non è in gioco la conoscenza teoretica che descrive le cose, nei limiti in cui esse ci appaiono e quindi come sono per noi e non come sono in sé, ma la ragion pratica che le costruisce sottoponendole alle leggi della libertà: il suo mondo, in quanto è da lei costruito, è dunque tutto intelligibile. Anche una detenzione meramente empirica implica che l'oggetto è temporaneamente nella sfera della mia libertà e per questo va considerato intelligibilmente.
[ 91 ] È sintetico perché non è implicito nel concetto di libertà giuridica, ma è anche a priori perché non dipende dall'esperienza, avendo a oggetto un possesso senza detenzione.
[ 92 ] Questa distinzione fornisce uno strumento per criticare sia le enclosure, sia il colonialismo che ha trattato terre comuni soggette alle leggi consuetudinarie delle comunità locali - si veda per esempio il caso degli aborigeni australiani - come res nullius esposte all'appropriazione originaria da parte dei colonizzatori. Kantianamente, si deve riconoscere che la presenza di norme, anche solo consuetudinarie, locali indica che l'appropriazione originaria è già avvenuta: le popolazioni native avrebbero dunque avuto il diritto di resistere a chi li scacciava dalle loro terre pretendendo che fossero res nullius. Vale la pena rileggere, in proposito, quanto scrive Kant sul colonialismo nel terzo articolo definitivo della Pace perpetua:
Se si confronta con ciò la condotta inospitale degli stati di buoni costumi, specialmente di quelli commerciali, della nostra parte del mondo, l'ingiustizia che dimostrano nella visita a paesi e popoli stranieri (che per loro passa per identica alla conquista) arriva fino al terrore. L'America, i paesi dei negri, le isole delle spezie, il Capo etc. alla loro scoperta erano per loro paesi che non appartenevano a nessuno [corsivo mio]; per loro, infatti, gli abitanti non contavano nulla.
Questa tesi viene riconfermata alla fine del §15 del capitolo dedicato all'acquisizione (266): per quanto nativi americani, ottentotti e neozelandesi possano apparirci selvaggi, non è legittimo appropriarsi delle loro terre con la forza o, peggio, con l'inganno, senza riguardo al loro primo possesso, allo scopo di portare la civiltà. Un simile argomento -il fine giustifica i mezzi - appare a Kant semplicemente come un espediente gesuitico per velare un'ingiustizia.
[ 93 ] Una simile dottrina si ritrova in Grozio (De iure belli ac pacis libri tres, II.II.I-II), secondo il quale il comunismo primitivo viene superato a causa dei processi che, da comunità semplici e pure, conducono a società complesse.
[ 94 ] "È la decima categoria di Aristotele, habere; ma nel sistema critico un predicabile della categoria della causa" (Ak XXIII, 325): avere in proprio potere un oggetto significa essere in grado di esercitare effetti su di esso. V. Mary Gregor, op. cit., p. 286 n. 38.
[ 95 ] Per una illustrazione chiara si veda G. Marini, La filosofia cosmopolitica di Kant cit., pp. 26-27.
[ 96 ] Un ringraziamento alla studentessa Emma Bonutti che ha proposto l'interpretazione più immediata del testo kantiano. La versione precedentemente presente su questo ipertesto era, infatti, inutilmente complessa.
[ 97 ] Ho tradotto una medesima parola, Zustand, prima con "situazione" e poi con "stato" per rendere chiaro che Kant sta parlando di Zustand come stato nel senso di condizione e non di organizzazione statuale.
[ 98 ] Vale la pena notare che Kant non fonda il passaggio allo stato civile su una teoria, metafisica o empirica, della malvagità della natura umana, ma esclusivamente sull'esigenza giuridica della garanzia.
[ 99 ] Una volontà di tutti presi separatamente, cioè uno per uno, è universale in senso solo distributivo e non è sufficiente a creare una volontà comune, per la quale non basta che tutti vogliano la stessa cosa, ma occorre che la vogliano in gruppo, essendo dunque disposti a creare un'istituzione per attuarla. Per esempio: un sondaggio d'opinione può accertare che tutti vogliono la stessa cosa in senso distributivo, ma perché questa volontà diventi comune in senso collettivo occorre che questi "tutti" siano disposti a creare o a partecipare a un'istituzione che la attui.
[ 100 ] Si veda, a titolo illustrativo, che cosa scrive Kant (Sul detto comune: «questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica», 300) a proposito del regresso all'infinito che seguirebbe alla negazione della possibilità di un giudice di ultima istanza.
[ 101 ] Si veda a questo proposito la critica di Hegel contenuta nel § 135 dei Lineamenti di filosofia del diritto.
[ 102 ] Kant precisa che questa acquisizione riguarda solo cose corporee.
[ 103 ] L'acquisizione originaria, che avviene idealmente allo stato di natura mi attribuisce un diritto reale, ancorché provvisorio, facto; il primo acquisto, che ha luogo secondo le regole di una società civile, mi attribuisce il medesimo diritto reale lege - anche se materialmente entrambi gli acquisti possono aver luogo tramite una medesima azione. Per esempio, se catturo una lepre selvatica trovandomi allo stato di natura è mia facto; ma se catturo una lepre altrettanto selvatica ma essendo io parte di una società civile, essa può diventare mia lege.
[ 104 ] La differenza fra possesso sensibile e possesso intelligibile qui risulta molto chiara: se ho un diritto su una cosa, il possesso intelligibile, giuridico, prevale sul possesso sensibile, empirico.
[ 105 ] Lo stesso argomento si ritrova - per quanto l'autore sia un antropologo e non citi Kant - in David Graeber, Debito. I primi 5000 anni, Milano, il Saggiatore, 2011, p. 247, corsivi miei:"Nel diritto romano, la proprietà, o dominium, è una relazione tra una persona e una cosa, caratterizzata dal potere assoluto di quella persona su quella cosa. Questa definizione ha provocato una serie sterminata di problemi concettuali. Prima di tutto non è chiaro che cosa significhi per un essere umano avere una «relazione» con un oggetto inanimato. Gli esseri umani possono avere relazioni gli uni con gli altri. Ma cosa vuol dire avere una «relazione» con una cosa? E se qualcuno ha tale relazione, che cosa significa dare a quella relazione uno statuto giuridico? Sarà sufficiente un semplice esempio: immaginiamo un uomo rimasto da solo su un'isola deserta. Potrebbe sviluppare delle relazioni estremamente personali, per esempio, con le palme che crescono su quell'isola. Se è lì da troppo tempo, potrebbe ritrovarsi a dare un nome alle palme e trascorrere metà del suo tempo impegnato in conversazioni immaginarie con loro. Ma è il loro proprietario? La domanda è assurda. Non c'è bisogno di preoccuparsi dei diritti di proprietà se non c'è nessuno. Allora è chiaro che la proprietà non è veramente una relazione tra persona e cose, ma un accordo, un'intesa tra persone a proposito di cose. L'unica ragione per cui talvolta non ce ne rendiamo conto è che in molti casi – in particolare quando parliamo dei diritti che accampiamo sulle scarpe, sugli attrezzi elettrici o sulle macchine – stiamo parlando di diritti che deteniamo, come sostiene il diritto inglese, «contro tutto il mondo», ovvero che si tratta di un accordo tra noi stessi e chiunque altro sul pianeta, che tutti si asterranno dall'interferire con i nostri beni e pertanto ci permetteranno di disporne, più o meno, come vogliamo. Una relazione tra una persona e tutti gli altri sul pianeta è, com'è comprensibile, difficile da concepire in queste forme. È più facile immaginarla come una relazione con una cosa. "
[ 106 ] Kant precisa che la comunione originaria non va confusa con la residenza, che è già un diritto acquisito, in quando dipende da un atto dell'arbitrio che instaura un possesso durevole del luogo in cui si pone la propria sede.
[ 107 ] John Locke, Due trattati sul governo, traduzione e cura di Brunella Casalini, Pisa, Pisa U.P., 2007.
[ 108 ] Jean-Jacques Rousseau, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, 1755, II; trad. italiana.
[ 109 ] Vale la pena ricordare che anche Locke (Second Treatise of Government, §192; ) sosteneva che chi appartiene a un popolo conquistati, soggetto dunque a un governo a cui non ha dato il suo consenso, conserva sia il diritto ai beni dei suoi antenati, sia quello di ribellarsi ai conquistatori.
[ 110 ] Kant usa la parola "volontà" perché l'uso delle cose non è un atto arbitrario, ma segue dal postulato giuridico della ragion pratica.
[ 111 ] Kant aggiunge che ci possono essere due proprietari di un medesimo oggetto, che però non sono propriamente condomini, cioè comproprietari di un bene comune: questo avviene quando il primo (dominus directus) possiede la cosa senza l'uso e l'altro (dominus utilis) l'uso senza la cosa, come una sorta di prestazione continua fornitagli dal primo.
[ 112 ] Così anche Ulpiano, Digesto 9.2.13: dominus membrorum suorum nemo videtur: nessuno può essere considerato proprietario delle sue membra.
[ 113 ] Contro Grozio, che invece sosteneva (De iure belli ac pacis libri tres, I.III.VIII), secondo il quale è lecito farsi schiavo di chi si preferisce, allo scopo di dimostrare che anche un popolo può cedere la totalità dei suoi diritti a una o più persone; e più vicino a Roussaeu: "Rinunciare alla propria libertà vuol dire rinunciare alla propria qualità di uomo, ai diritti dell’umanità e anche ai propri doveri. Non esiste alcun risarcimento possibile per chi rinuncia a tutto. Una tale rinuncia è incompatibile con la natura dell’uomo; togliere ogni libertà alla sua volontà vuol dire togliere ogni moralità alle sue azioni. Infine è una convenzione priva di validità e contraddittoria quella con cui viene stipulata da una parte un’autorità assoluta e dall’altra un’obbedienza senza limiti" (Su contrat social, 4, traduzione di Roberto Gatti, 2005). La questione non concerne solo la morale individuale, ma riguarda la politica e i suoi limiti.
[ 114 ] Kant precisa che l'atto negativo, quale l'abbandono o la rinuncia a ciò che è proprio, non è un titolo di acquisizione sufficiente: questo atto, infatti, è una mera spoliazione e non un'attribuzione, positiva, di un diritto a qualcuno.
[ 115 ] Varie scansioni dell'originale tedesco sono reperibili presso l'Internet Archive e entro la collezione Judaica della biblioteca universitaria di Francoforte; qui se ne può leggere una traduzione inglese, rimaneggiata per favorirne la leggibilità. L'esposizione successiva fa riferimento alle pagine 21 ss. dell'edizione Welt Verlag (Berlin) 1919, che corrispondono al capitolo I.3-9 della traduzione inglese.
[ 116 ] Un ladro che si è impadronito della mia bicicletta può certo venderla a un ricettatore: ma l'accordo bilaterale degli arbitrii del ladro e del ricettatore non costituisce sull'oggetto rubato - ottenuto fuori dal contratto - un diritto reale che si può far valere nei confronti di chiunque.
[ 117 ] Francesca Di Donato, Nei limiti della ragione. Il problema della famiglia in Kant, 2004, pp. 23 ss.
[ 118 ] Si tratta della divisione tradizionale, che si ritrova nella Politica di Aristotele (I.1253b): l'oikonomia, cioè l'amministrazione della casa, si occupa delle tre relazioni fondamentali che hanno luogo nella famiglia, vale a dire quella fra padrone e servo (despotike), quella fra uomo e donna (gamike o matrimoniale) e quella risultante dalla procreazione di figli (tecnopoietike). Come nota F. Di Donato supra, l'ordine di Kant è però significativamente diverso: la comunità domestica non comincia con la servitù, bensì col matrimonio.
[ 119 ] Tutti gli altri casi comportano dei crimina carnis contra naturam in quanto determinano una lesione dell'umanità nella nostra stessa persona. Kant non spiega perché: sulla base del testo però possiamo ipotizzare che in tutti questi casi la reificazione non possa essere sanata - ma per quale motivo? - tramite un'associazione di tipo matrimoniale.
[ 120 ] Kant precisa che questo tipo di contratto è una locatio conductio (locazione - somministrazione) che nel diritto romano era "scambio di un bene o di un servizio contro un prezzo, a titolo provvisorio", ma nella forma di una messa a disposizione della propria persona.
[ 121 ] Il matrimonio morganatico o "della mano sinistra" aveva tipicamente luogo - in seconde nozze - fra un nobile o un re e una donna di rango inferiore, con lo scopo di non contaminare la famiglia con sangue e pretese aliene: per questo Kant dice che sfrutta la differenza di stato per accentuare il dominio di una parte sull'altra ed è in sostanza un concubinato.
[ 122 ] Un caso paragonabile è quello dell'esclusiva editoriale, a proposito della quale Kant si mostra capace di correggersi.
[ 124 ] Hobbes, di contro, definiva la libertà in modo naturalistico, tanto da poterla illustrare con questo esempio: "l'acqua chiusa in un vaso non è libera, perché il vaso stesso le impedisce di effondersi, e se esso si rompe viene liberata" (De Cive, IX.9).
[ 125 ] Nel linguaggio di Kant, questa applicazione della categoria all'esperienza si fa con la mediazione di uno schema: dal momento che le categorie non sono contenute nei fenomeni, per applicarle ad essi occorre una terza figura, che è appunto la molteplicità astratta contenuta del tempo, forma pura della sensibilità. Per la categoria di causa, lo schema è la successione del molteplice in quanto sottoposto a una regola (Critica della ragion pura, AK III 138).
[ 126 ] Tommaso d'Aquino (Summa Theologiae, I.6.4) risolveva elegamentemente il problema del rapporto fra libertà e creazione con la dottrina della causae secundae: la creazione non è un miracolo continuo perché Dio, causa prima, ha creato della cause intermedie che operano secondo la loro propria essenza, senza bisogno del suo continuo intervento. Questo permette di pensare anche il mondo morale umano come lo sviluppo di un progetto certo determinato da Dio come causa prima, ma che ha bisogno della nostra libertà per essere sviluppato. Riconoscere le bontà plurali sviluppate dalle cause intermedie non significa affatto negare la bontà e la potenza della causa prima.
[ 127 ] E qui Kant usa per la prima volta il termine Familie in luogo di Haus e dei suoi derivati: questo impiego sottolinea ancora una volta che i figli non sono una proprietà o una risorsa dell'oikos.
[ 128 ] Il diritto alla libertà si può perdere legalmente, per Kant, solo in seguito a un delitto. Ma i figli di chi si trova in questa condizione sono sempre liberi, non avendo nessuna colpa, e non devono avere nessun debito di chi li educa. Per questo, se lo schiavo non può farlo, l'obbligazione di curarli ed educarli passa a chi lo controlla. Per capire di chi cosa parla Kant dobbiamo ricordare che nell'età moderna si usava condannare ai lavori forzati e deportare in colonie penali coloro che venivano riconosciuti colpevoli di delitti più o meno gravi.
[ 129 ] I muratori egiziani conoscevano benissimo il teorema di Pitagora, ma solo sul piano empirico, ma non lo sapevano dimostrare, perché non lo collocavano in un sistema strutturato di conoscenze alla maniera dei greci.
[ 130 ] I contratti di natura mista o basati su leggi positive e convenzioni sono invece di numero indefinito.
[ 131 ] Il mutuo non è un semplice scambio perché è un contratto in cui il mutuatario riceve dal mutuante una certa quantità di oggetti fungibili - per esempio dei soldi o delle sementi -, ne diviene proprietario e si obbliga a restituirgliene altri dello stesso tipo e qualità.
[ 132 ] In quanto l'affitto è un contratto oneroso, se la restituzione può aver luogo solo in specie, esso può comportare anche un interesse (pactum usurarium). Per cosa in genere si intende, secondo una tradizione risalente al diritto romano, un oggetto fungibile, che posso individuare in base a numero, peso o misura; una cosa in specie invece è un oggetto specifico e non intercambiabile. L'espressione "pagamento in specie" indica il cosiddetto pagamento in natura, cioè con beni particolari anziché con un generico salario. Kant, dunque, vuol dire che se la cosa affittata è un oggetto non fungibile, che il locatore non può sostituire con un altro, è possibile chiedere un interesse per il suo uso. Vale la pena osservare che, nelle epoche in cui era proibito il prestito di denaro a interesse o usura, si aggirava il divieto con vendite e affitti fittizi. "Usura" infatti significava genericamente uso o godimento, e solo specificamente godimento di un capitale prestato ad altri.
[ 133 ] Obses o opses significa "ostaggio": sul piano legale non può trattarsi di una persona catturata con la forza, ma di qualcuno che si trattiene spontaneamente a garanzia di un impegno; nell'antica Roma, per esempio, ostaggi di questo tipo venivano impiegati a garanzia dei trattati internazionali. Nel testo di Kant l'espressione è usata in senso lato, per indicare una garanzia di tipo personale, cioè non coperta né da cose come nel pegno, né da obbligazioni accessorie come nella fideiussione.
[ 134 ] Gottfried Achenwall, Ius Naturae In Usum Auditorum. Pars Prior Continens Introdutionem In Ius Naturalem In Genere Et Ius Mere Naturale, 1774, I.II.VIII, § 207: "clarum est, pecuniae usum precipuum et ordinarium consistere in aliendo"
[ 135 ] Una rappresentazione del commercio - paritario e non coloniale - come scambio che, tramite lo transazione economica approssima i popoli a una costituzione cosmopolitica si ritrova anche nel terzo articolo definitivo della Pace perpetua.
[ 136 ] Nel I, II e III capitolo del primo libro di The Weath of the Nations. Smith spiega che la divisione del lavoro non si è stabilita per una saggezza umana che prevedesse e intendesse perseguire la generale opulenza che si basa su di essa, bensì per la naturale propensione degli esseri umani al commercio, connessa probabilmente a ragione e linguaggio. Grazie a questa propensione, agenti egoisti possono mobilitare a proprio favore l'egoismo altrui: "It is not from the benevolence of the butcher, the brewer, or the baker that we expect our dinner, but from their regard to their own interest. We address ourselves, not to their humanity but to their self-love, and never talk to them of our own necessities but of their advantages". In questa condizione primitiva, Smith immagina però che esistano fornai, birrai e macellai con i loro negozi.
[ 137 ] Questa storia alternativa allontana Kant da Adam Smith e dall'economia classica e lo approssima, a dispetto della sua adesione alla teoria metallica della moneta, a quella che sarà la posizione di Keynes (A Treatise on Money I, 1930, p. 4): "Lo stato, pertanto, si interpone prima di tutto come l’autorità della legge che obbliga al pagamento della cosa corrispondente al nome o alla descrizione nel contratto. Ma si interpone doppiamente quando inoltre avoca a sé il diritto di determinare e dichiarare che cosa corrisponda al nome e di variare la sua dichiarazione di tempo in tempo; quando, cioè, avoca a sé il diritto di rimodificare il dizionario. Questo diritto è preteso da tutti gli stati moderni ed è stato preteso in questa forma da almeno quattromila anni. Una volta raggiunta questa fase dell’evoluzione della moneta, il cartalismo di Knapp - la dottrina secondo la quale la moneta è specificamente una creazione dello stato - è pienamente realizzato."
[ 138 ] Smith scrive: "It is in this manner that money has become in all civilized nations the universal instrument of commerce, by the intervention of which goods of all kinds are bought and sold, or exchanged for one another." L'elemento personale dell'operosità è dunque una aggiunta di Kant.
[ 139 ] Questa impostazione di Kant, che è di politica economica e non di economia politica, si ritrova nel quarto articolo preliminare della Pace perpetua, che autorizza a far uso del debito pubblico per migliorare l'economia di un paese con investimenti in opere pubbliche e in quanto oggi si chiamerebbe welfare, ma ne proibisce l'impiego come arma finanziaria "in relazione a conflitti esterni dello stato". La differenza fra l'uno e l'altro investimento non è economica: è politica. Nel primo caso, l'investimento in deficit è conforme al diritto perché rispetta la dignità delle persone, nel secondo, chiaramente, no.
[ 141 ] Come osserva Landolfi Petrone, qui Kant sta criticando Achenwall che nel suo manuale di diritto naturale (§240) sosteneva una tesi diversa.
[ 142 ] Sarebbe, per esempio, un errore di surrezione sostenere che lo ius necessitatis rende giusto uccidere un innocente per salvarsi la vita, invece di riconoscere che esso va riconosciuto in situazioni in cui il diritto è inefficace perché non dispone di sanzioni sufficientemente deterrenti.
[ 143 ] Si veda per esempio il principio "l'acquisto interrompe l'affitto" menzionato anche nel §31, II parte: se il contratto non ha previsto diversamente, il diritto reale passa a una persona diversa dall'affittante che non ha nessun vincolo contrattuale con l'affittuario e che può sfrattarlo anzitempo; l'inquilino può rivalersi per l'interruzione del contratto, chiedendo un risarcimento, solo con il precedente proprietario, nei confronti del quale gode non di un diritto reale su ciò che aveva preso in affitto, bensì solo di un diritto personale. Il diritto reale del nuovo proprietario vale verso tutti, inquilino compreso; il diritto personale dell'inquilino vale solo nei confronti del proprietario precedente, il quale alienando la cosa si è reso inadempiente nei suoi confronti.
[ 144 ] Kant paragona i giuramenti europei al costume dei Rejang, che giurano sulle ossa degli antenati defunti pur non credendo affatto in una vita oltre la morte, o delle popolazioni della Guinea che giurano su feticci.
[ 145 ] I giuramenti d'ufficio, richiesti quando si assume una carica, sono promissori: il funzionario - nota Kant nell'appendice casistica - promette di fare scrupolosamente il suo dovere, con la prospettiva di poter invocare eventuali ostacoli imprevisti a propria scusante. Un giuramento assertorio sarebbe invece assai più inquietante, perché impegnerebbe a sostenere che tutto quanto si è compiuto è ineccepibile. Il giuramento che consiste nella professione di una fede o di una credenza è invece inaccettabile: il credere si trova a metà strada fra l'opinione e il §sapere, e comporta un grado di convinzione per la quale si può al massimo scommettere ma su cui non si potrebbe seriamente dare la propria parola, anche perché è sempre possibile che quanto ci pare verosimile ora domani, da un altro punto di vista, ci sembri invece inverosimile.
[ 146 ] Nel senso di situazione o condizione giuridica.
[ 147 ] V. S.Byrd e J.Hruschka cit. (Appendix to ch. 2).
[ 148 ] Si confronti, a questo proposito, quanto scrive Kant nel Detto comune a proposito della resistenza a chi pretende di legittimare il suo potere solo con la forza
[ 149 ] Si confronti questo ragionamento con la duplice posizione che Kant assume sulla menzogna a seconda che sia privatistica o pubblicistica.
Il diritto pubblico è il complesso delle leggi che richiedono una promulgazione generale per produrre uno stato giuridico.
Una moltitudine di esseri umani o una moltitudine di stati in una relazione tale che non possono fare a meno di influenzarsi a vicenda si trova in uno stato giuridico, in cui ciascuno è partecipe a ciò che è di diritto, se la legge comune è resa pubblicamente nota o promulgata tramite una costituzione esito di una volontà che li unisce.
La costituzione, in altre parole, è un atto collettivo di pubblicazione del diritto, che lo fa uscire dalla provvisorietà del diritto privato. Questo atto dà origine a uno stato civile (status civilis), 150 se lo consideriamo distributivamente dal punto di vista dei singoli in rapporto con altri singoli, o a uno stato (nel senso di civitas o unità politica) se lo consideriamo collettivamente come un'unione di persone.
Lo stato a sua volta si chiama:
La pluralità degli stati intesi come potenze implica che il diritto pubblico possa essere suddiviso in tre parti, così:
diritto internazionale (ius gentium )
diritto dello stato dei popoli o ius cosmopoliticum
Kant aggiunge al diritto pubblico statuale e internazionale l'ulteriore figura del diritto cosmopolitico perché la finitezza della superficie terrestre comporta che gli stati abbiano inevitabilmente rapporti reciproci e rende indispensabile che il mondo intero raggiunga lo stato giuridico. Se infatti a uno di questi tre livelli mancasse il principio di limitazione della libertà esterna gli altri due sarebbero messi in pericolo e alla fine crollerebbero. In altre parole: se la garanzia del diritto offerta da un singolo stato non si estendesse oltre i suoi confini, negli altri stati, nei loro rapporti reciproci e nella comunità globale che li contiene, essa rimarrebbe sempre provvisoria e mai perentoria, perché esposta, a ogni livello, alla violenza della guerra.
La violenza e la malvagità con cui gli esseri umani si affrontano allo stato di natura, quando manca un potere legislativo esterno, non ci sono note per conoscenza empirica. Anche l'idea dello stato di natura come stato non giuridico è una costruzione razionale che non deriva dall'esperienza: anche se immaginiamo gli esseri umani come buoni e amanti del diritto rimane il fatto che, senza una condizione giuridica pubblica, ciascuno ha diritto di fare ciò che per lui è giusto e buono indipendentemente dall'opinione degli altri. Una simile condizione non è necessariamente ingiusta, cioè basata effettivamente sullo scontro fra gli esseri umani e la legge del più forte: è però uno status iustitia vacuus, cioè privo di diritto nel senso della lex iustitiae. In caso di disaccordo (ius controversum), infatti, manca un giudice terzo fra le parti la cui sentenza sia coercitiva, così da costringere ciascuno a entrare in uno stato giuridico. Ciò comporta che sia possibile rappresentare nello stato di natura sia l'appropriazione sia il contratto secondo i concetti del diritto: ma queste acquisizioni rimangono provvisorie - cioè esposte alle pretese di chiunque - perché mancano le garanzie offerte dalla società civile. 152
Per non rinunciare al diritto, è dunque giuridicamente obbligatorio uscire dallo stato di natura ed entrare, d'accordo con tutti coloro con i quali non si può evitare la relazione, in uno stato civile il quale, tramite un costrizione legislativa pubblica, determini che cosa spetti a ciascuno e lo imponga con un potere esterno adeguato, diverso da quello individuale.
Lo stato è l'unificazione di una moltitudine di esseri umani sotto leggi di diritto.
Questa definizione è a priori e non a posteriori: le leggi di diritto di cui parla Kant non sono dunque positive, ma derivano dai concetti di diritto esterno in generale. La sua forma è quella dello stato come idea secondo i principi puri del diritto. Il ruolo dell'idea non è descrivere unioni politiche esistenti, bensì fungere da norma entro ogni unificazione effettuale che crea una res publica. In altre parole, le unificazioni politiche effettuali non producono di per sé uno stato giuridico: il loro diritto positivo deve essere sempre in discussione perché la sua norma, la sua unità di misura, non sta nel fatto, ma nella ragione.
In quanto lo stato è idealmente esito di una scelta collettiva, esso si identifica con la volontà generale.
Ogni stato, scrive Kant, contiene in sé tre poteri, cioè la volontà generale unita in tre persone:
potere del sovrano (Herrschergewalt, Souveränität), nella persona del legislatore
potere esecutivo nella persona del governatore
potere giudiziario nella persona del giudice
Come in un sillogismo pratico, la legge della volontà generale unita corrisponde alla premessa maggiore; il comando del governo a comportarsi secondo la legge alla minore (che contiene il principio di sussunzione del particolare); e la sentenza, che stabilisce qual è il diritto nel caso particolare, alla conclusione.
Kant, come Rousseau, usa il concetto di volontà generale, ma allo stesso tempo la dottrina della divisione dei poteri. Come possono queste due nozioni possono stare insieme? 153
Rousseau identifica la sovranità con l'esercizio della volontà generale e la considera inalienabile, perché se il popolo la assegnasse a un capo dissolverebbe se stesso come popolo libero per diventare una moltitudine di schiavi sotto un padrone, e indivisibile:
Per la stessa ragione in virtù della quale la sovranità è inalienabile è anche indivisibile. Infatti la volontà è generale o non lo è; è quella del corpo del popolo o solamente di una parte. Nel primo caso questa volontà, dichiarata, è un atto di sovranità e fa legge, mentre nel secondo è soltanto una volontà particolare o un atto di magistratura; tutt’al più è un decreto.
Ma i nostri politici, non potendo dividere la sovranità quanto al suo principio, la dividono quanto al suo oggetto; la dividono in forza e in volontà, in potere legislativo e in potere esecutivo, in diritti concernenti le imposte, la giustizia e la guerra, in amministrazione interna e in potere di trattare con lo straniero; talvolta confondono tutte queste parti, talaltra le separano. Fanno del Sovrano un essere paragonabile a quelli prodotti dalla fantasia, formato di pezzi messi insieme l’uno con l’altro; è come se componessero l’uomo con più corpi, di cui l’uno avesse gli occhi, l’altro le braccia, l’altro i piedi, e niente più. [...]
Questo errore nasce dal fatto che non ci si è formati delle nozioni esatte circa l’autorità sovrana e dall’aver preso per parti di quest’autorità quelle che ne sono solo emanazioni. 154
Kant, fin qui, sembra seguire fedelmente Rousseau identificando sovranità e potere legislativo, ma con una differenza: i tre poteri dello stato sono per lui la volontà generale unita in tre persone, secondo la dottrina della trias politica, espressione, questa, associata alla teoria della separazione dei poteri di Montesquieu (De l'esprit des lois, XI.6) . E se i poteri dello stato sono una triade, non si può sostenere che esecutivo e giudiziario derivino dalla sovranità per emanazione, perché ciò li renderebbe gerarchicamente subordinati. Perché Kant, pur avendo evidenti debiti nei confronti di Rousseau, sceglie questa soluzione mista?
Il potere legislativo può essere attribuito solo alla volontà generale unita del popolo. Per Kant, a differenza che per il Rousseau del Contratto sociale, non occorre entrare in una società civile per diventare morali: si deve uscire dallo stato di natura semplicemente per dare garanzia pubblica a un diritto che possiamo concepire anche senza stato. Il passaggio alla società civile, però, comporta la pubblicazione della legge. Per evitare che questa pubblicazione produca un torto giuridico nei confronti di qualcuno, occorre che la legge non sia deliberata da uno o da alcuni per qualcun altro, bensì da tutti per tutti (volenti non fit iniuria). Per questo può essere legislatrice solo la volontà generale unita di tutti.
Chi è membro di uno stato, vale a dire di una società civile unitasi per la legislazione, si chiama cittadino (civis) e come tale gode dei seguenti attributi giuridici:
libertà legale, per la quale non ubbidisce a nessuna legge se non a quella a cui ha dato il suo assenso;
uguaglianza civile, per la quale, nel popolo, riconosce come superiore con la facoltà morale di obbligarlo solo chi può a sua volta essere obbligato;
indipendenza civile, per la quale deve la sua esistenza e conservazione non all'arbitrio altrui, ma ai propri diritti e alle proprie forze come membro della res publica; questa qualità gli permette di avere una personalità civile per la quale non deve essere rappresentato da altri per quanto concerne il diritto.
Il cittadino, dunque, gode di libertà politica perché è tenuto a ubbidire solo a leggi pubbliche alla cui approvazione, in virtù della sua indipendenza, ha potuto partecipare, e formulate in modo tale che chi lo vincola ne sia a sua volta vincolato. Ma mentre nella Pace perpetua la cittadinanza veniva riconosciuta a tutti i membri della comunità politica, qui invece ricompare, a restringerla, il requisito dell'indipendenza.
Detto comune (1793) | Pace perpetua (1795) | Metafisica dei costumi (1797) | |
---|---|---|---|
1 | libertà in quanto essere umano | libertà in quanto essere umano | libertà in quanto essere umano - libertà legale in quanto cittadino attivo |
2 | uguaglianza in quanto suddito | dipendenza in quanto suddito | uguaglianza in quanto essere umano - uguaglianza civile in quanto cittadino attivo |
3 | indipendenza in quanto cittadino | uguaglianza in quanto cittadino | indipendenza civile in quanto cittadino attivo |
liberalismo | democrazia | liberalismo |
Per cittadino Kant intende chi ha la capacità di votare: essa, a sua volta presuppone l'indipendenza, associata al voler essere non solo parte della comunità come cittadino passivo, bensì membro attivo e partecipe o cittadino attivo secondo il proprio arbitrio in comunione con gli altri.
La distinzione fra cittadini passivi e attivi, ai quali soltanto sono riservati i diritti politici, si ritrova nell'articolo 2 della sezione seconda della costituzione francese del 1791, che disegna una monarchia costituzionale liberale a suffragio ristretto. Kant, riproponendola, sembra tornare, come si vede nella tabella 5.1, alle posizioni del 1793, che pur aveva superato nella Pace perpetua con il principio dell'uguaglianza come cittadini. Il passaggio dall'uguaglanza liberale del 1793 - soltanto davanti alla legge - all'uguaglianza democratica nei diritti politici del 1795 era dovuto a una nuova rappresentazione della libertà, basata sul suo lato positivo: l'autodeterminazione politica di chi ha la facoltà di non obbedire a nessuna legge esterna se non a quella cui avrebbe potuto dare il proprio assenso. Questa rappresentazione della libertà in senso positivo è ancora presente nella Metafisica dei costumi come attributo giuridico dei cittadini entro la società civile - anzi, entro una società civile in cui il potere legislativo è attribuito alla volontà unita del popolo proprio per impedire che una sua parte legiferi contro un'altra, a proprio esclusivo vantaggio.
Lo stesso Kant scrive (314) che il concetto di cittadino passivo pare contraddire il concetto di cittadino in generale, e cerca di chiarire la sua tesi con degli esempi. Le persone dipendenti sono coloro che conservano la propria esistenza (nutrimento e protezione) 155 non tramite una propria attività, ma in quanto necessitate da disposizioni altrui, vale a dire:
minorenni
donne
apprendisti presso commercianti e artigiani
servi (esclusi quelli al servizio dello stato)
prestatori d'opera che vendono la loro forza-lavoro (opera) invece che un proprio prodotto (opus) o servizio come merce e si trovano per questo in condizione di dipendenza dai loro padroni (per esempio: taglialegna e fabbri che compiono le loro prestazioni a domicilio, precettori domestici, livellari). 156
Più sistematicamente, possiamo raggruppare i cittadini passivi in tre categorie:
persone in stato di dipendenza provvisoria o almeno idealmente tale, per sesso ed età;
persone in condizione di servitù domestica;
persone in condizione di vassallaggio feudale.
I cittadini passivi, scrive Kant, se considerati come esseri umani, hanno diritto alla libertà e all'uguaglianza naturale - condizione, questa, che deve essere rispettata perché un popolo, con il passaggio alla società civile, si trasformi in uno stato. E entro lo stato hanno diritto a chiedere libertà naturale e uguaglianza come parti passive, ma non necessariamente anche come parti attive che contribuiscono alla sua organizzazione e legislazione, purché "qualsiasi tipo di leggi positive i cittadini votino, queste non debbano essere contro a quelle naturali della libertà e dell'uguaglianza ad essa conforme di tutti nel popolo, così che, cioè, siano in grado di elevarsi dalla condizione passiva a quella attiva" . 157
Se consideriamo le relazioni giuridiche che giustificano l'attribuzione dello status di cittadino passivo, possiamo sviluppare la condizione di Kant così:
il diritto di famiglia non deve contenere norme che impediscano a donne e minori di emanciparsi;
non possono essere avallati o istituiti vincoli di vassallaggio;
non possono essere approvate norme che impediscano ai servi di uscire dalla loro condizione.
Dal momento che la dipendenza per motivi anagrafici è provvisoria e quella vassallatica è contraria al diritto in senso stretto, il caso più interessante dei tre è quello della servitù, per la quale Kant aveva disegnato uno specifico diritto personale di tipo reale avendo in mente un'economia preindustriale basata sull'oikos. In un sistema industriale in cui l'economia esce di casa per diventare politica, negare il diritto di voto a tutti coloro che vendono la propria forza-lavoro e non un proprio prodotto o servizio comporterebbe l'esclusione dai diritti politici non solo dei servi di casa, ma di tutti gli operai - con il rischio che i padroni legiferino e facciano legiferare per la propria parte e non per tutto il popolo. Questo rischio non sarebbe affatto scongiurato se l'emancipazione del servo fosse semplicemente individuale, cioè se gli fosse concessa esclusivamente la libertà di mettersi in proprio e diventare padrone ma l'istituzione della servitù rimanesse inalterata.
Di più: se il passaggio alla società civile garantisce ma non istituisce il diritto, che è secondo ragione, come possono esservi due libertà, una naturale compatibile con una condizione di dipendenza e una legale basata su una versione politica, ma esclusiva, dell'autonomia?
E ancora: se si riconosce che la dipendenza del lavoratore, l'incapacità di indirizzare il proprio lavoro se non secondo gli ordini e il senso di altri, è sempre servile e tale da rendergli impossibile l'autodeterminazione politica, perché non porre anche la questione della democrazia economica? Perché dare per scontato che, come cittadino, possa autodeterminarmi o aspirare ad autodeterminarmi politicamente ma nell'economia, una volta divenuta o riconosciuta come politica, si debbano mantenere le servitù dell'oikos? 158
Queste domande, assenti nel testo di Kant, sono suggerite da una scrittura che sembra riprendere con una mano quello che offre con l'altra, mescolando però promiscuamente forme diverse di dipendenza, alcune delle quali già rappresentate come inaccettabili - lasciando nel lettore il dubbio se il filosofo si stia semplicemente contraddicendo, negando tesi che aveva affermato con forza nel §41, o, regnante ancora Federico Guglielmo II, stia occultando il suo pensiero per l'uso di lettori più attenti dei funzionari della censura.
I tre poteri dello stato sono autorità o dignità (Würden) di natura costituzionale. Non sono, cioè, uffici istituiti per questo o quello scopo pragmatico che possono essere aperti o chiusi secondo il bisogno, bensì componenti strutturali di uno stato giusto.
Non possono essere ridotti a strumenti accidentali perché determinano e delimitano il rapporto fra chi comanda (imperans) e chi ubbidisce (subditus). Ma chi comanda, in una costituzione fondata sulle leggi della libertà, vale a dire sulla legge morale, è il popolo unito, che esercita collettivamente il suo potere su se stesso in quanto moltitudine di individui, allo scopo di garantire a tutti e a ciascuno una pari libertà. I poteri dello stato meritano il nome di dignità proprio perché articolazioni essenziali di una costituzione legittima fondato sull'idea del contratto originario tramite il quale il "diritto secondo me" diviene "diritto secondo noi".
In un patto societario di diritto privato, gli individui cedono una parte della loro libertà per uno scopo che si propongono: così avviene, per esempio, quando alcune persone creano una cooperativa per costruire una casa, impegnandosi a dedicarvi una parte del loro tempo. Un simile contratto è un mezzo per un fine, che si può condividere o no. Il contratto originario, invece, istituisce lo stato giuridico per garantire a tutti la medesima libertà secondo una legge di cui tutti sono partecipi: non nasce cioè da un progetto che si può avere o no, ma rende possibile fare progetti a tutti coloro che sono in società. Così comporta la rinuncia totale alla libertà selvaggia del "diritto secondo me" che in caso di controversia si riduce alla legge del più forte, per assicurare una libertà integrale fondata sulla dipendenza da una legge che scaturisce dalla volontà legislatrice di tutti. Passare alla società civile e al "diritto secondo noi" è infatti l'unico modo per risolvere le controversie con il diritto e non con la forza. In questo senso, il patto costituzionale non è un mero mezzo per uno scopo - non è una soluzione per controversie particolari, come potrebbe essere un arbitrato di diritto privato - ma la condizione della risolvibilità di tutte le controversie possibili e dunque della perentorietà della legge stessa.
E non si può dire: "lo stato, l'essere umano nello stato, ha sacrificato una parte della sua innata libertà esterna per uno scopo" ma piuttosto "questi ha completamente abbandonato la sua libertà selvaggia e senza legge per ritrovare la libertà in generale inalterata nella sua dipendenza legale", cioè in uno stato giuridico, perché questa dipendenza deriva dalla sua propria volontà legislatrice.
I poteri dello stato sono reciprocamente coordinati e subordinati:
sono coordinati, perché ciascuno è complementare all'altro: la costituzione è un sistema e ciascuno dei tre poteri contribuisce a renderla completa;
sono subordinati, perché ciascun potere comanda nella sua qualità di persona particolare ma alle condizioni dettate dalla volontà di una persona superiore: il potere legislativo fa le leggi, ma non può né applicarle, né dirimere le controversie intorno a esse; il potere esecutivo le applica, ma è subordinato alla legge e alle sentenze dei giudici; il potere giudiziario decide sulle controversie, ma sulla base di leggi scritte dal potere legislativo e con la forza del potere esecutivo.
Coordinazione e subordinazione garantiscono, assieme, il diritto dei cittadini perché offrono, per ogni rivendicazione, un legislatore, un esecutore e un giudice, ma in modo tale che a ciascuno di essi sia difficile prevaricare sugli altri in modo tale che il "diritto secondo noi" della volontà generale si ritrasformi nell'imposizione di un "diritto secondo me" come nello stato di natura. La volontà generale, in altre parole, si articola in una sovranità non monocratica, bensì distribuita. Per questo, anche gli attributi della sovranità sono distribuiti fra i poteri e non concentrati in uno solo: il potere legislativo è irreprensibile, quello esecutivo irresistibile e quello giudiziario, almeno nel suo grado supremo, inappellabile. Se prendiamo il testo di Kant alla lettera, ne segue che il potere legislativo è resistibile e appellabile, quello esecutivo reprensibile e appellabile, quello giudiziario reprensibile e resistibile.
Con un progressione che si ritrova anche nella Pace perpetua, Kant dedica il primo capoverso alla definizione del potere esecutivo, il secondo alla sua distinzione dal potere legislativo, com'era originariamente in De l'esprit des lois (IX, 6) e i capoversi successivi alla definizione del potere giudiziario. Solo l'ultima capoverso specifica questa partizione come tripartizione.
Il reggente di uno stato (rex, princeps) è la persona morale o fisica a cui spetta il potere esecutivo. Quando è una persona fisica - suggerisce implicitamente il testo - il reggente è un monarca 159 morale prende il nome di direttorio 160 o governo.
Il potere esecutivo opera come un agente dello stato che:
nomina i magistrati;
prescrive al popolo le regole secondo le quali ciascuno può acquisire o conservare qualcosa legalmente, sussumendo il caso particolare sotto la legge.
Il termine "magistrati" qui si riferisce, genericamente, ai funzionari dell'amministrazione dello stato (gubernatio), che operano sotto il controllo di ministri. I comandi del governo non sono leggi, bensì decreti e ordinanze, revocabili, che decidono, per sussunzione, solo di casi particolari.
Un governo che fosse anche legislatore sarebbe dispotico, perché negherebbe il principio della libertà legale dei sudditi, costringendoli sotto leggi a cui non hanno dato il loro assenso. Ciò lo renderebbe paterno (väterlich) ma non patriottico (vaterländisch): i cittadini verrebbero trattati come bambini, invece che come possessori di se stessi 161 indipendenti dalla volontà assoluta di qualcun altro. Quando potere esecutivo e potere legislativo sono separati abbiamo un regimen civitatis et patriae: i cittadini sono certo anche membri di una famiglia - di una collettività in cui si nasce e di cui si diviene parte senza averlo scelto - ma sono anche riconosciuti come esseri liberi in quanto partecipano alla legislazione.
Il legislatore a sua volta, che pure Kant chiama sovrano del popolo, non può essere allo stesso tempo il suo reggente,il quale è sottoposto alla legge e tramite essa obbligato. Il potere legislativo può cambiare la struttura del governo e può anche destituire il governante, ma non può punirlo, perché l'esercizio della facoltà di costringere è una prerogativa del potere esecutivo, il quale dunque può costringere senza essere costretto. Questo, secondo Kant, è il solo senso del detto inglese "the king can do no wrong" (rex non potest peccare).
Kant connette la parola sovranità al potere legislativo, ma applica invece al potere esecutivo la dottrina dell'immunità sovrana, distribuendo dunque, pluralisticamente, le prerogative della sovranità fra i poteri dello stato.
Il potere legislativo 162 e il potere esecutivo possono insediare giudici in quanto magistrati o funzionari dello stato, ma non possono propriamente giudicare, nel senso di stabilire la colpevolezza o l'innocenza di chi si presenta loro davanti.
La sentenza è un atto singolare di giustizia distributiva compiuto da un funzionario dello stato - un giudice o un tribunale - nei confronti di un membro del popolo, che subisce passivamente l'applicazione della legge. Se ad assegnare ciò che spetta a ciascuno fosse un funzionario del potere legislativo o del potere esecutivo, i membri del popolo sottoposti a giudizio sarebbero sudditi e non partecipi del proprio diritto. Perciò deve essere il popolo a giudicare se stesso, tramite i suoi rappresentanti che compongono le giurie, col compito di stabilire se l'imputato è colpevole o innocente. Spetta dunque a giurie composte da giudici popolari compiere la sussunzione, che è la parte del sillogismo giudiziario più delicata, perché richiede l'uso del Giudizio.
Tramite i tre poteri, lo stato ha la sua autonomia, cioè si costituisce e conserva secondo la legge morale, vale a dire sulla garanzia della libertà di tutti. Kant usa la parola "autonomia" perché se i poteri non fossero divisi lo stato sarebbe dispotico, perché guidato da una volontà particolare anziché da quella generale di tutti i cittadini. Per questo la salute dello stato non consiste nella sua capacità di promuovere la (presunta) felicità dei sudditi, come potrebbe fare un dispotismo o lo stato di natura, 163 ma nell'unione dei tre poteri, la quale garantisce la sua conformità al diritto in quanto componente della legge morale.
[ 150 ] Nel senso di "situazione" o "condizione" civile.
[ 151 ] Gemeines Wesen (cosa comune) corrisponde all'inglese commonwealth.
[ 152 ] La provvisorietà - spiega Kant nell'annotazione al § 44 - non riguarda i contenuti delle leggi del mio e del tuo esterno, bensì la carenza di giustizia distributiva delle loro condizioni di applicazione: se infatti si sostenesse che queste leggi non valgono neppure provvisoriamente, la società civile sarebbe una costruzione solo di potere e non di diritto. Per un giusnaturalista l'esperimento intellettuale dello stato di natura non può rappresentare una condizione senza legge, bensì solo una condizione in cui leggi riconosciute secondo ragione mancano però di garanzie.
[ 153 ] Rousseau, nel II capitolo del Contratto sociale, rappresenta la sovranità come indivisibile, contro il costituzionalismo di Locke e Montesquieu (v. la nota 61 alla traduzione di Roberto Gatti, 2005).
[ 154 ] Contratto socialeII.II, traduzione di R.Gatti, corsivi aggiunti.
[ 155 ] Per questo la loro esistenza, scrive Kant, può essere detta inerenza. L'inerenza è il modo di esistere degli accidenti, determinazioni cangianti che si avvicendano in una sostanza la quale invece permane nel modo della sussistenza (Critica della ragion pure, Ak, III, 165).
[ 156 ] Il fabbro, il falegname, il maestro di scuola e l'affittuario, anche se compiono prestazioni lavorative analoghe, sono indipendenti perché offrono un proprio prodotto o servizio sul mercato, anziché lavorare agli ordini altrui.
Il livello si differenziava dall'affitto di un fondo agricolo perché comportava un rapporto di vassallaggio feudale che obbligava il livellario alla fedeltà e alla prestazione di alcuni servizi.
[ 157 ] Questa distinzione è presente nella cosiddetto costituzione francese dell'anno III, introdotta nel 1795 dopo la reazione termidoriana che aveva posto fine al Terrore. "Secondo la nuova costituzione, il Parlamento era diviso in due assemblee. La prima camera, il Consiglio dei Cinquecento, proponeva i testi delle leggi all’altra, il Consiglio degli Anziani, che li approvava o li respingeva. La Francia optava dunque per il bicameralismo, ma in un senso molto originale, che non è stato piú imitato: uno dei due rami del Parlamento aveva il potere legislativo, e l’altro quasi solo il compito tecnico della redazione dei testi. Questo Parlamento era eletto a suffragio indiretto e censitario, un po’ come era stato previsto dalla costituzione monarchica del 1791. Il potere esecutivo andava ad un Direttorio di cinque membri. I cinque «direttori» erano designati dalla camera alta, gli Anziani, in una rosa proposta dal Consiglio dei Cinquecento. Ogni anno il Consiglio degli Anziani ne designava uno, e quindi ciascuno restava in carica cinque anni. Il Direttorio nominava i ministri, suoi esecutori subordinati, ma non controllava le finanze che erano gestite da una Tesoreria nominata dal potere legislativo. La nuova repubblica francese non era quindi un regime parlamentare all’inglese, nel senso che l’esecutivo non esprimeva necessariamente la maggioranza parlamentare, e non si dimetteva se si trovava in contrasto col potere legislativo. Infatti il corpo elettorale scivolò a destra, esausto com’era dalla rivoluzione, e le camere ebbero presto una maggioranza monarchica, mentre il Direttorio, che si rinnovava lentamente, rimase repubblicano e in minoranza nel Parlamento e nel paese, e fu perciò indotto ad appoggiarsi sull’esercito per governare." Adriano Prosperi, Paolo Viola, Storia moderna e contemporanea, II, Torino, Einaudi, 2000, XI.11.
[ 158 ] "Today the scientific and ethical boundaries of our industrial activities are not in the hands of scientists, teachers, and thinkers; nor is the intervening opportunity for decision left in the control of the public whose welfare such decisions guide. On the contrary, the control of industry is largely in the hands of a powerful few, who decide for their own good and regardless of the good of others. [...] Must industry rule men or may men rule even industry? And unless men rule industry, can they ever hope really to make laws or educate children or create beauty?" (W.E.B. Du Bois, Darkwater, Voices from within the veil, New York, Harcourt, Brave & Howe, 1920, fine capitolo VI)
[ 159 ] Si veda la nota, apparentemente frivola, del Detto comune che nega il titolo di "grazioso signore" ai monarchi, che tutt'al più sono titolari del potere esecutivo.
[ 160 ] Kant usa il termine Directorium, con un riferimento abbastanza chiaro al direttorio, che in Francia, sotto la costituzione dell'anno III (1795), detenne il potere esecutivo fra il 1795 e il 1799.
[ 161 ] Qui si sta parlando dell'elemento reale proprio del diritto dei genitori sui figli minori, che è un diritto personale di specie reale, e che nel regime patriottico rimane in capo ai cittadini.
[ 162 ] Sia la costituzione francese del 1791, monarchico-costituzionale, sia la democratica costituzione dell'anno I (1793), sia quella liberale dell'anno III prevedevano l'elettività dei giudici.
[ 163 ] Così suggeriva Rousseau nel suo Discorso sull'origine della disuguaglianza.
Immanuel Kant, La metafisica dei costumiby Maria Chiara Pievatolo is licensed under a Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International License.
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