Tetradrakmaton

Diritto d'autore e comunicazione del sapere

Bollettino telematico di filosofia politica
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Approfondimento: il dibattito illuministico sul diritto d'autore in Germania

Anche negli stati tedeschi, nel XVIII secolo, il commercio librario ebbe una fioritura senza precedenti: i rigidi limiti territoriali del privilegio, combinati con l'estrema frammentazione politica della Germania produssero una grande quantità di ristampe non autorizzate. Il dibattito sulla proprietà intellettuale fu dunque molto vivace e arricchito dalla partecipazione di figure di primo piano, come Lessing, Klopstock, Kant e Fichte. 22 In Germania una forte tradizione romanistica militava contro l'idea di una proprietà intellettuale che insiste su un oggetto immateriale. 23 Nella seconda metà del '700, però, personalità come Lessing cominciarono a sostenere - sia contro la teoria luterana del talento come dono di Dio, sia contro il regime del privilegio, che dava il monopolio della stampa e dei suoi proventi agli editori - il diritto dell'autore ad essere remunerato per la propria opera, un quanto prodotto del suo proprio lavoro. 24

Il dibattito tedesco merita - per il suo spessore filosofico - una considerazione approfondita. In questa sezione Fichte, Kant e Lessing verranno esaminati in un ordine cronologico inverso, allo scopo di mostrare come, man mano che si indietreggia nel tempo, il concetto di proprietà intellettuale diviene via via sempre pià bisognoso di dimostrazione. Questo rende la discussione illuministica particolarmente interessante e attuale, proprio perché offre degli strumenti filosofici per affrontare senza pregiudizi la crisi del diritto d'autore.

La Prussia adottò il diritto d'autore solo con molto ritardo. L'Allgemeine Landrecht für die Preußischen Staaten, entrato in vigore nel 1794, non conteneva disposizioni sulla proprietà intellettuale. Esso regolava esclusivamente il contratto di edizione, e prevedeva, per i ristampatori abusivi, sanzioni civili e penali molto miti. Solo col Preußische Gesetz zum Schutze des Eigenthums an Werken der Wissenschaft und Kunst gegen Nachdruck und Nachbildung del 1837, si impose per la prima volta una vera e propria disciplina sul diritto dell'autore, protetto fino a trent'anni dopo la sua morte.

Fichte: l'originalità come fondamento della proprietà intellettuale

Il mercante e il califfo

L'articolo di Fichte uscito sulla Berlinische Monatsschrift nel 1793 25 è considerato una pietra miliare nella storia della proprietà intellettuale. Il suo argomento, infatti, prelude all'estetica romantica del genio creatore: la cosiddetta originalità viene infatti intesa come un titolo che fonda un vero e proprio diritto di proprietà su un ente immateriale.

L'articolo si conclude con una parabola, nella quale, nonostante l'ambientazione esotica, si ravvisano molti luoghi comuni sulla proprietà intellettuale ancor oggi familiari.

Ai tempi del califfo Harun al Rashid esisteva a Baghdad un alchimista che aveva inventato un farmaco portentoso. Preferendo dedicarsi ai suoi studi, ne aveva dato il commercio in esclusiva a un unico mercante, il quale ne traeva gran lucro. Un commerciante concorrente sottrasse con la forza il farmaco agli uomini dell'esclusivista che lo ritiravano dal chimico e lo rubò anche dal suo magazzino. Cominciò quindi a venderlo a un prezzo più basso di quello chiesto dal mercante in esclusiva. Questi, catturatolo, lo mise sotto accusa davanti al califfo. Il secondo mercante si difese sostenendo che la sua attività diffondeva il farmaco, rendendolo accessibile anche ai più poveri; che non ne danneggiava l'inventore, il quale lavorava solo per la fama e doveva dunque essergli grato perché faceva circolare il suo nome; e che non danneggiava neppure l'esclusivista, il quale aveva già guadagnato abbastanza sfruttando il suo monopolio; questi, anzi, avrebbe perso tutto se il chimico avesse scelto di vendere il suo elisir sempre in esclusiva, ma solo in proprio. Che decisione prese Harun al Rashid, celebrato nelle Mille e una notte per la sua sapienza? «Fece impiccare quest'uomo utile».

La parabola di Fichte contiene delle tesi che, fino a ieri, erano luoghi comuni, ma che, nell'età dell'Illuminismo, erano tanto controverse e soggette a discussione quanto stanno tornando ad esserlo oggi:

  • Il diritto d'autore è una vera e propria proprietà

  • Chi lo viola è paragonabile a un ladro

  • Il potere politico deve limitarsi a difenderlo, ignorando le ragioni del pubblico dominio

  • Gli interessi del pubblico sono menzionati solo dai "pirati" e vengono liquidati come un pretesto per delinquere.

  • L'autore entra in scena solo quel tanto che è necessario per cedere i suoi diritti e non si interessa affatto del modo in cui il suo lavoro viene diffuso

L'assioma della proprietà

Per Fichte è assiomatico, cioè immediatamente evidente, che noi «deteniamo necessariamente la proprietà di una cosa la cui attribuzione a un altro è fisicamente impossibile».

Il "mio" nel senso della proprietà deriva dal "mio" nel senso dell'originalità o unicità. Se qualcosa non può essere attribuita ad altri che a me, allora è necessariamente mio.

Se cercassimo di costruire una legittimazione della proprietà privata degli oggetti fisici basata esclusivamente sull'assioma di Fichte avremmo delle conseguenze bizzarre. Quando abbiamo a che fare con oggetti materiali – mele, pentole o biciclette - è fisicamente possibile "attribuirle" a chiunque. L'istituto giuridico della proprietà è stato inventato proprio per offrire regole e sanzioni che diano certezza e stabilità a questa "attribuzione", in modo da non costringerci a passare la vita a litigare sul mio e sul tuo. Ciò che è fisicamente impossibile attribuire a qualcun altro non ha bisogno di questa tutela. Le mie impronte digitali, per esempio, possono essere attribuite soltanto a me, una volta che sia stata identificata univocamente. E poiché nessuno può imprimere sul vetrino, con la sua mano, le mie impronte in luogo delle sue, non occorre proteggerle con la proprietà privata.

La proprietà privata, nell'ambito materiale, si applica ad oggetti che non sono incorporati negli individui, ma possono essere facilmente attribuita ad altri. Se fosse mio solo ciò che fosse fisicamente impossibile attribuire ad altri, io non potrei, per esempio, lasciare la mia bicicletta in cortile, ma dovrei sempre tenerla con me; basterebbe infatti che qualcuno me la portasse via per rendere fisicamente possibile attribuirla a lui, anziché a me. La mia proprietà, in altri termini, non avrebbe nessuna vera garanzia giuridica.

Che cosa c'è di "mio" in un libro?

Fichte, chiedendosi che cosa possa soddisfare il suo assioma della proprietà, distingue, nel libro, due aspetti, secondo questo schema:

  1. aspetto fisico (la carta stampata)

  2. aspetto spirituale:

    1. materia (i pensieri che il testo rappresenta)

    2. forma (il modo, il nesso, le circonvoluzioni e le parole con cui i pensieri stessi sono rappresentati)

Quale di questi aspetti soddisfa l'assioma della proprietà? Per quanto concerne l'aspetto fisico, la sua proprietà, all'acquisto del libro, passa interamente a chi lo compra. Per quanto concerne la materia dell'aspetto spirituale – i pensieri – l'acquirente del volume può farli interamente propri, mettendoci il suo lavoro, e cioè «uno studio diligente e razionale». In questo modo, ciò che, prima della pubblicazione del libro, era solo nella mente dell'autore, dopo può essere pensato anche da lui. Rimane la forma: «Ciascuno ha una sua propria maniera di sviluppare le idee, il suo modo peculiare di costruirsi concetti e di connetterli reciprocamente», diverso da quello di ogni altro. Questo, dunque, è sua proprietà esclusiva nel senso dell'assioma inizialmente proposto.

Da qui scaturiscono due diritti dello scrittore: cioè non solo [...] il diritto di impedire che in generale qualcuno lo privi della proprietà di questa forma (di pretendere che ciascuno lo riconosca come autore del libro), ma anche il diritto di impedire che qualcuno interferisca nella sua proprietà esclusiva di questa forma e ne usurpi il possesso.

L'autore assegna all'editore l'usufrutto della sua proprietà esclusiva. Il ristampatore abusivo si arroga questo usufrutto senza che lo scrittore glielo abbia ceduto. Per questo, secondo Fichte, la ristampa dei libri è illegittima.

La proprietà letteraria di Fichte è dunque, a ben guardare, un diritto reale inalienabile, di cui si cede solo un usufrutto. Questo rende già teoricamente possibile limitare l'uso legittimo che l'acquirente finale può compiere di un testo, tramite licenze accuratamente delimitate e ritagliate.

Le opere d'arte

Secondo Fichte un prodotto dell'arte meccanica ha un aspetto corporeo, e cioè «la materia di cui è fabbricato, acciaio, oro, legno e simili» e un aspetto spirituale, e cioè «il concetto, che sta alla sua base (la regola, secondo la quale è fabbricato)». Con la vendita del prodotto, la proprietà dell'aspetto fisico viene interamente trasferita all'acquirente. Quanto all'idea progettuale, che rappresenta la materia della parte spirituale dell'opera, essa non viene propriamente trasferita con la vendita: l'acquirente, tuttavia, con la sua capacità di osservazione e il suo ingegno è in grado di impadronirsene completamente. L'acquirente, pertanto, ha piena facoltà di riprodurre la macchina che ha comprato. Il privilegio - cioè un brevetto che assicura il monopolio dello sfruttamento di una invenzione - è qualcosa che il diritto positivo può aggiungere allo scopo di dare all'inventore un equo compenso. La durata di questo brevetto, che cancella, per equità, il diritto alla copia stabilito dal diritto naturale, secondo ragione, deve però essere soltanto temporanea.

Questo argomento, però, non vale per le belle arti:

Il diritto del compratore di riprodurre quello che ha comprato si estende tanto quanto si estende la possibilità fisica di appropriarsene, e questa diminuisce, quanto più l'opera dipende dalla forma, di cui noi non possiamo mai appropriarci. Questa gradazione procede, in sfumature impercettibili, dalla comune lampada da studio fino alla Notte di Correggio. Quest'ultima non è mai andata in cerca di un privilegio, eppure non è stata oggetto di contraffazione. Ogni imbrattatele sa certamente applicare colori, luce e ombre, e dipingere un bambino e una giovane donna; ma non si tratta di questo: si tratta della forma dell'esecuzione, che si può sentire ma non descrivere. Le incisioni su rame di dipinti non sono ristampe: alterano la forma. Esse offrono incisioni, e non dipinti; e chi pensa che passino per uguali, faccia pure. Anche un'incisione che riproduce dipinti già ricalcati non è una ristampa: infatti ciascuno dà alla sua incisione la sua propria forma. Sarebbe ristampa solo nel caso in cui qualcuno si impadronisse della piastra dell'altro e ne facesse un calco.

Le belle arti, a differenza delle arti meccaniche, non hanno solo una materia spirituale, ma anche un forma originale. Fichte non prevede, su di esse, un diritto d'autore soltanto perché non sono riproducibili esattamente da un copista. Nel caso in cui si disponesse di tecniche per una riproduzione esatta - come avviene oggi - anche le opere d'arte meriterebbero protezione.

Il privilegio librario

In generale un privilegio è una eccezione a una legge universalmente valida della legislazione naturale o civile. Sulla proprietà dei libri non c'è stata finora nessuna legge civile; dunque il privilegio librario deve essere una eccezione a una legge di natura. Un privilegio di questo tipo dice che un certo libro non deve essere ristampato; presuppone, dunque, una legge di natura, che dovrebbe suonare così: tutti hanno diritto di ristampare tutti i libri.

Fichte non riconosce la validità del privilegio librario, perché per lui il diritto d'autore appartiene al diritto naturale e non dipende dal diritto positivo. Consegnare la tutela del diritto d'autore al privilegio concesso dal potere politico significa esporla all'abuso e all'arbitrio. Un sovrano può avere, infatti, tutto l'interesse a proteggere i suoi librai e a consentire la ristampa dei testi che hanno ottenuto un privilegio fuori dai confini del suo stato. Era proprio questo, in effetti, che rendeva così diffusa la pratica del Nachdruck.

L'avversario di Fichte: Johann Albert Heinrich Reimarus

L'articolo di Fichte del 1793 era una risposta a un testo di J.A.H. Reimarus Der Bücherverlag in Betrachtung der Schriftsteller, der Buchhändler und des Publikums abermals erwogen il quale sosteneva che, se si dove intendere la proprietà letteraria come una attribuzione inalienabile, si deve anche riconoscere che questa attribuzione è del tutto indipendente dalla ristampa.

Ma la vera proprietà intellettuale, la celebrità, il fatto che i pensieri siano suoi e solo suoi, rimane [...] al solo autore anche dopo la morte. (p. 385)

Di contro, il testo nella sua materialità, una volta reso pubblico, diventa proprietà di chi lo compra e può essere liberamente ristampati. Dal punto di vista della giustizia, dunque, la ristampa è perfettamente legittima.

Ci si può soltanto chiedere se sia utile, per la società, limitare con provvedimenti di diritto positivo il diritto di riprodurre i testi. E si può effettivamente pensare, per equità, a un monopolio provvisorio, per garantire una remunerazione all'autore. In generale, però, la giustizia è la strada preferibile perché garantisce alla società l'utile della certezza del diritto: un monopolio perpetuo non solo terrebbe i prezzi arficiosamente alti, ma, di per sé, non garantirebbe affatto maggiori guadagni agli autori né, tanto meno, li incentiverebbe a scrivere libri migliori.

Fichte e Kant

Contro la tesi di Reimarus secondo la quale il monopolio letterario non è fondato sulla giustizia e può essere motivato solo da - provvisorie - ragioni di utilità, Fichte si sforza di costruire una fondazione del diritto d'autore sul diritto naturale. In questo impegno, Fichte si dice vicino alla posizioni espresse da Kant nel saggio del 1785 L'illegittimità della ristampa dei libri, anche se confessa di aver composto il suo articolo senza aver letto il testo kantiano. Kant, secondo Fichte, lega il diritto dell'autore a controllare la stampa del suo testo al fatto che quest'ultimo sia una sua opera 26 ,cioè un suo delle sue forze che può essere determinato come suo proprio solo in virtù del carattere personalissimo della forma spirituale in esso impressa. L'originalità fonda la proprietà.

Kant: l'illegittimità della ristampa dei libri

Kant si occupò del problema della ristampa (non autorizzata) dei testi nel saggio L'illegittimità della ristampa dei libri (1785) e nella Metafisica dei costumi (1797), precisamente nella Dottrina del diritto § 31, II.

Kant e la tradizione romanistica

La proposta di Kant, come viene detto esplicitamente nella conclusione del saggio del 1785, vuole rimanere entro i limiti tracciati dalla tradizione romanistica: non si vuole, cioè, introdurre - alla maniera di Fichte - un nuovo ed inusitato diritto di proprietà su un oggetto immateriale.

Se l'idea di una edizione di libri in generale qui posta a fondamento fosse ben compresa ed elaborata con l'eleganza richiesta dalla giurisprudenza romana (come mi lusingo sia possibile), la querela contro il ristampatore potrebbe ben essere portata davanti ai tribunali senza la necessità di sollecitare preliminarmente una nuova legge a questo scopo. [Ak VIII, 87]

Per Kant, come per Reimarus, non è possibile costruire un diritto di proprietà intellettuale in nome di una pretesa proprietà dell'autore sui suoi pensieri, perché la ristampa non li sottrae affatto all'autore. Le idee, entità immateriali, sono infatti indefinitamente condivisibili senza chi le ha pensate per primo sia privato di niente.

Quanto ai libri, se li intendiamo come oggetti materiali, dobbiamo anche riconoscere che la loro proprietà passa interamente a chi li compra. Sarebbe difficile, infatti, che qualcuno fosse disposto ad acquistare un libro con il vincolo esplicito - e vessatorio - di dover rispondere della sua eventuale ristampa. A maggior ragione, pertanto, è anche insostenibile che una simile obbligazione possa essere accettata tacitamente. ((Ak VIII, 79))

Le opere d'arte

La distanza di Kant dai teorici della proprietà intellettuale si misura chiaramente dalle sue tesi sulle opere d'arte, le quali, una volta che se ne è venuti legittimamente in possesso, possono essere liberamente riprodotti e le loro copie possono essere altrettanto liberamente regalate o vendute.

Le opere d'arte, infatti, sono oggetti che esauriscono il loro senso in se stessi e non hanno bisogno di essere ricollegate alle persone, come loro azioni: per questo possono essere trattate come entità materiali che possono essere sottoposte, senza riserve, a diritti reali, sia dalla parte del venditore, sia da quella dell'acquirente. Kant, a differenza di Fichte, non tratta affatto l'originalità della forma spirituale come fondamento per un presunto diritto di proprietà immateriale.

La proprietà kantiana si applica solo agli oggetti materiali, e milita sistematicamante a favore della libertà di copia. Se qualcosa diventa mio, io ho il diritto ddi farne quello che voglio. In un ambiente kantiano, quello che oggi sarebbe bollato come pirateria rientrerebbe invece fra i diritti dell'acquirente: non si capisce perché la proprietà di un produttore discografico o cinematografico debba prevalere sulla proprietà di chi acquista qualcosa da loro.

Il libro come discorso

Il libro nella sua materialità è a pieno titolo oggetto di proprietà privata: chi, dunque, lo riceve legittimamente in proprietà, ha il diritto di riprodurlo come preferisce. I "pensieri" che esso comunica, in quanto entità immateriali, possono essere indefinitamente condivisi, senza che chi li pensa sia privato di nulla. Né la ristampa priva l'autore dei suoi "diritti morali": il fatto che un testo sia ristampato non mette in discussione la circostanza storica che i pensieri da esso trasmessi siano stati pensati per la prima volta dal suo autore.

Soltanto se consideriamo il libro sotto un terzo aspetto, in quanto discorso, cioè come una azione che una persona compie nei confronti di altre, Kant ritiene possibile dimostrare l'illegittimità della ristampa. Il libro edito è anche un discorso che lo scrittore fa al pubblico per mezzo di un suo portavoce autorizzato, l'editore. Il ristampatore è un portavoce non autorizzato. Non abbiamo a che fare con diritti reali o diritti sulle cose, bensì con diritti personali.

Quando Kant parla di diritti personali, non intende i diritti della personalità dei giuristi di oggi, bensì, come era allora tradizionale, i diritti ad ottenere prestazioni dalle persone. L'illegittimità della ristampa non deriva dal fatto che qualcuno ha violato un mio fondamentale diritto alla proprietà intellettuale, né, come pensava Fichte, dall'inimitabilità del mio stile, bensì soltanto dalla circostanza che qualcuno ha comunicato col pubblico in mio nome senza che io l'avessi autorizzato. In questo contesto, Kant dice “mio” in un terzo senso, diverso sia dal “mio” della proprietà delle cose tangibili sia dal “mio” della tipicità individuale: si tratta del “mio” dell'imputazione. Se io parlo, compio un'azione che è mia nel senso che è imputabile a me. Se qualcun altro parla in mio nome, anche recitando la mia lista della spesa, ma senza che io l'abbia autorizzato, commette la stessa illegittimità di cui si macchia il ristampatore: mi fa entrare in un rapporto a cui non ho dato il mio assenso.

Solo se vediamo il libro come un discorso di un autore al pubblico che ha luogo tramite la mediazione di un editore, possiamo giustificare la necessità dell'autorizzazione da parte dello scrittore a un editore. L'editore, in quanto mediatore e portavoce, parla in nome dell'autore. Ma lo può fare legittimamente solo se ha il mandato di quest'ultimo.

I diritti degli "scrilettori"

Il ristampatore viola il diritto dell'autore non perché riproduce il testo, ma perché parla al pubblico in nome dell'autore senza esserne autorizzato. Il divieto di ristampa, perciò, non può valere per le riproduzioni ad uso personale, che non vengono distribuite al pubblico. Il diritto d'autore di Kant infatti non riposa - come per Fichte - sulla proprietà intellettuale, ma sul diritto di ciascuno a controllare con la propria delega chiunque abbia la pretesa di agire a nome suo. Tutto ciò che non comporta un'azione abusiva in nome dell'autore rimane libero.

Nell'annotazione generale del saggio del 1785 Kant afferma esplicitamente che le elaborazioni creative, come le traduzioni e i compendi, sono da considerarsi come discorsi di chi le ha composte. Non richiedono pertanto l'autorizzazione degli autori delle opere da cui sono derivate, anche qualora comunichino le medesime idee: i pensieri, in quanto entità immateriali, possono essere infatti indefinitamente condivisi.

Wreader è un neologismo creato dai teorici dell'ipertesto per parlare di un lettore che è nello stesso tempo scrittore, perché partecipa alla composizione del testo. Un testo rinchiuso nel recinto della proprietà intellettuale non si presta all'attività di un lettore scrittore, perché ogni opera derivativa, a cominciare dalla traduzione, costituisce una violazione del diritto dell'autore. Kant, però, che concepisce il testo come un discorso, si sottrae a questo rischio, lasciando liberi tutti gli usi personali e rielaborativi. All'autore rimana la facoltà di decidere se e come pubblicare il suo testo: ma le componenti essenziali dell'uso pubblico della ragione - l'istruzione personale, l'esercizio della critica, la reinterpretazione creativa e la diffusione delle idee - rimangono completamente libere.

I diritti del pubblico

Kant si differenza da Fichte non solo perché contempera l'esigenza di autodeterminazione degli autori e la libertà di circolazione delle idee rimanendo fedele alla tradizione romanistica, ma anche perché aggiunge, nel rapporto fra l'autore e l'editore, il pubblico.

Per Kant il rapporto fra autore ed editore non è una relazione a due, fra un proprietario e il suo usufruttuario, come è per Fichte. L'editore funge da mediatore fra l'autore e il pubblico: i suoi interessi meritano di essere legalmente riconosciuti e tutelati solo perché e se il loro rispetto agevola la diffusione del suo testo. Quando essi ostacolano la circolazione dei testi, prevale l'interesse del pubblico ad accedere agli scritti. 27

Che l'editore conduca il suo negozio di editore non meramente a suo proprio nome ma a nome di un altro (cioè il redattore) e che non lo possa fare senza la sua autorizzazione, è comprovato da certe obbligazioni, che, per riconoscimento generale, sono annesse all'editore. Se il redattore fosse morto dopo che ha consegnato il suo manoscritto all'editore per la stampa e questi vi si è reso obbligato, quest'ultimo non è libero di trattenere il manoscritto come sua proprietà, ma il pubblico ha, in mancanza di eredi, il diritto di costringerlo all'edizione o a cedere il manoscritto a un altro che offra di pubblicarlo. Prima, infatti, era un negozio che l'autore voleva svolgere con il pubblico per suo tramite, per il quale egli si offriva come conduttore di negozi. Il pubblico non era neppure in bisogno di conoscere questa promessa del redattore, né di accettarla; ottiene questo diritto sull'editore (di fornire qualcosa) esclusivamente per legge. Perché l'editore possiede il manoscritto solo alla condizione di usarlo per un negozio dell'autore con il pubblico; questa obbligazione nei confronti del pubblico rimane, anche se quella nei confronti dell'autore è cessata con la sua morte. Qui non viene posto a fondamento un diritto del pubblico al manoscritto, bensì al negozio con l'autore. Se l'editore, dopo la sua morte, facesse uscire l'opera dell'autore mutilata o falsificata, o facesse mancare copie in numero occorrente alla domanda, allora il pubblico avrebbe la facoltà di costringerlo a una maggiore correttezza o a un aumento della tiratura, e altrimenti di procurarsela altrove. Tutto questo non potrebbe aver luogo se il diritto dell'editore non fosse derivato da un negozio che egli conduce fra il pubblico e l'autore, in nome di quest'ultimo.(Ak 84-85, corsivi aggiunti)

Il saggio di Fichte evoca il pubblico solo nel discorso del mercante "pirata", contenuto nella parabola finale - discorso i cui argomenti vengono liquidati come pretestuosi. Kant, di contro, riconosce il diritto del pubblico, a cui il discorso dell'autore è indirizzato, ad accedere ai testi, una volta che l'autore abbia scelto di renderli pubblici. Kant può permettersi di fare questo proprio perché per lui il diritto dell'autore non nasce da una proprietà il cui usufrutto può essere trasmesso all'editore senza riguardo per gli interessi dei terzi, bensì di una azione comunicativa, che si perfeziona solo quando l'autore riesce a parlare col pubblico. L'editore ha dei diritti solo se e quando facilita la comunicazione fra l'autore e il pubblico.

La versione kantiana del diritto d'autore - proprio perché non si fonda su una teoria della proprietà intellettuale - contiene dunque organicamente, senza sacrificare la libertà dell'autore, lo spazio per la libertà della parola e della cultura, dell'istruzione e della rielaborazione personale.

Il problema dell'esclusiva

Nel saggio del 1785, Kant sembra teorizzare il carattere esclusivo dell'autorizzazione dell'autore all'editore:

...è chiaro che, dal momento che ognuno dei due – il primo editore e chi in seguito si arroga l'edizione (il ristampatore) – condurrebbe il negozio dell'autore con un unico e medesimo pubblico nella sua interezza (ganz), l'elaborazione dell'uno dovrebbe rendere quella dell'altro inutile e dannosa per ciascuno di loro; quindi è impossibile un contratto dell'autore con un editore con la riserva di poter permettere ancora a qualcun altro all'infuori di lui, l'edizione della sua opera. (AK VIII 81)

Il diritto dell'autore, per Kant, si fonda sulla sua libertà di scegliere se e come impegnarsi in un discorso con pubblico. Da questo punto di vista, nulla impedirebbe, in linea di principio, che un autore non desse mandato di parlare in suo nome a un solo editore, bensì una molteplicità, anche indefinita. Secondo il Kant del 1785 più editori che stampassero un medesimo testo si ostacolerebbero a vicenda. Questo, in effetti, era vero allo stato della tecnologia dell'epoca: la stampa era un'intrapresa difficile, rischiosa e costosa, che richiedeva una organizzazione industriale specializzata e un alto investimento di capitale. Non è più vero oggi: pubblicare in rete ha un costo marginale pressoché nullo, una volta che si è ottenuto l'accesso a un server: se l'autore vuole raggiungere un pubblico più vasto, ha tutto l'interesse ad autorizzare a riprodurre il suo testo il maggior numero possibile di persone - per esempio adottando una licenza Creative Commons.

Lo stesso Kant si deve essere reso conto che l'esclusività del mandato non era fondata a priori, ma su una contaminazione empirica, tanto che nella Metafisica dei costumi, del 1797, l'argomento contenuto nel saggio del 1785 viene riproposto nella sua interezza, con la sola eccezione del mandato esclusivo, che viene lasciato cadere.

In conclusione, fra Kant e Fichte, a dispetto di quanto credeva lo stesso Fichte, ci sono almeno quattro importanti differenze:

  • mentre Fichte fonda la sua proprietà intellettuale sull'originalità dell'espressione, Kant non menziona mai questo elemento, e argomenta l'illegittimità della ristampa sulla base del diritto dell'autore di scegliere se e come rivolgersi al pubblico

  • Fichte equipara il diritto d'autore alla proprietà privata; mentre Kant afferma che tutte le volte che si usa il concetto di proprietà, esso va preso sul serio non solo dalla parte del produttore, ma anche di quella del consumatore

  • per Fichte il ristampatore è un ladro, e deve essere punito penalmente; per Kant, invece, è semplicemente un mandatario senza mandato, tenuto a un mero risarcimento dei danni.

  • mentre Fichte ignora il diritto del pubblico, Kant lo prende sul serio, tanto da trattare il diritto dell'editore come strumentale rispetto al rapporto fra autore e pubblico.

I diritti dell'autore: Vivere e lasciar vivere di G.E. Lessing

Kant costruisce il suo diritto d'autore sul rapporto fra l'autore stesso e il pubblico. Non si interrogato, però, sulla questione dell'autonomia economica dello scrittore, di cui si occupa un inedito degli anni '70 del XVIII secolo, Vivere e lasciar vivere. Un progetto per scrittori e librai, composto dallo scrittore illuminista tedesco G.E. Lessing.

Nel regime del privilegio, che veniva solitamente conferito all'editore e non all'autore, quest'ultimo scompariva non appena aveva ceduto il suo manoscritto - per una cifra solitamente modesta - all'editore, il quale avrebbe potuto trarne gran lucro senza farvi minimamente partecipare l'autore. Gli scrittori, per sopravvivere, dovevano ricorrere al mecenatismo - che li poneva in un rapporto clientelare con il loro finanziatore - o a professioni collaterali, come, ad esempio, quella di bibliotecario.

Lessing, allo scopo di rendere l'autore economicamente autonomo cerca di fondare il titolo a trarre profitto dalla stampa di un libro su un diritto soggettivo che ha origine dal suo lavoro e non da una concessione politica. Questo diritto viene da lui chiamato “proprietà”: merita questo nome tutto ciò che «si sia in grado di dimostrare che senza di me o non ci sarebbe affatto o non esisterebbe in tale forma» (p. 783).

La tesi di Lessing sulla proprietà dell'autore è simile a quella di Diderot, ma con una importante differenza: Lessing si rende conto che l' appello a una proprietà che non può essere sfruttata in modo esclusivo - il testo, una volta pubblicato, può essere facilmente ristampato - è puramente retorico (p. 784). C'è, inoltre, il rischio che dalla proprietà dell'autore non tragga guadagno l'autore stesso, bensì l'editore.

Il problema di Lessing è dunque molto simile a una questione che la rete - che è una gigantesca fotocopiatrice - ha reso attuale: in che modo garantire l'autonomia economica dell'autore in un ambiente in cui la copia è facile?

Lessing propone un sistema di stampa su sottoscrizione, basata sulle richieste dei lettori e sulla condivisione equa del guadagno fra autore, editore e tipografo. Gli autori dovrebbero pubblicare un'ampia anteprima del loro testo, in modo che i lettori interessati possano prenotarsi per una copia del libro. Se si raccoglie un numero sufficiente di prenotazioni, il libro viene stampato: quello che se ne ricava compenserà il lavoro dell'editore, dello scrittore e del tipografo, prima che la ristampa diventi possibile. Le ristampe, a loro volta, potendo essere fatte solo dopo che la prima edizione ha avuto luogo e si è ripagata, non danneggerebbero nè l'autore, né il suo primo editore. Il sistema che ne risulterebbe non solo sarebbe più equilibrato nella distribuzione dei ricavi, ma darebbe più potere agli autori e ai lettori, senza ostacolare la libera circolazione delle idee.

Il progetto di Lessing si sarebbe potuto attuare se nel XVIII secolo ci fosse stato un sistema di circolazione delle informazioni più veloce ed economico della stampa. In mancanza di questo sistema, rimase allo stato di frammento inedito - lasciandoci però l'eredità di una prospettiva realistica sul potere degli editori, la posizione degli autori e il loro rapporto col pubblico.



[ 22 ] I testi più significativi di questo dibattito sono raccolti nell'archivio "Giuliano Marini" a questo indirizzo: http://archiviomarini.sp.unipi.it/view/subjects/094.html

[ 23 ] Per esempio, una perizia della facoltà giuridica di Lipsia del 1665 affermava che, sulla base della dottrina romanistica della proprietà, l'editore ha solo il diritto reale sul manoscritto, quando lo acquista. Secondo la facoltà giuridica di Jena, nel 1722, dalla circostanza che un libro è stato fatto da un autore e rimane legato a lui anche dopo la sua morte non si può inferire che gli esemplari, una volta stampati, appartengano all'autore o al suo concessionario, o che uno dei due abbia uno jus proihibendi sulla ristampa (J.A. Mccarthy, «Literatur als Eigentum: Urheberrechtliche Aspekte der Buchhandelsrevolution», MLN, 104(3), 1989, pp. 531-547)

[ 24 ] G.E. Lessing, Leben und leben lassen. Ein Projekt für Schriftsteller und Buchhändler. La sua traduzione italiana è disponibile qui.

[ 25 ] J.G. Fichte, «Beweis der Unrechtmäßigkeit des Büchernachdrucks. Ein Räsonnement und eine Parabel», Berlinische Monatsschrift, Mai 1793; la traduzione italiana, corredata dal testo originale, è disponibile on-line sul sito del Bollettino telematico di filosofia politica.

[ 26 ] Nel senso latino di opera, operae (azione, lavoro, attività).

[ 27 ] Per una esposizione più ampia delle tesi di Kant si veda questa recensione, la cui lettura è raccomandata in particolare agli studenti che non hanno già incontrato il saggio di Kant sulla ristampa nei loro studi precedenti.

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