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Diritto d'autore e comunicazione del sapere |
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Nell'Europa continentale si dovette attendere la rivoluzione francese e le leggi Le Chapelier (1791) e Lakanal (1793) per superare il regime del privilegio a favore di una normativa sul diritto d'autore paragonabile a quella britannica. Questo ritardo fu però, in un certo senso, felice perché permise agli illuministi di affrontare la questione della proprietà intellettuale in maniera approfondita e di arricchirla con un nuovo ingrediente: i cosiddetti diritti morali dell'autore. 16
Anche in Francia, il privilegio librario era una concessione, in deroga al diritto comune, derivante dalla prerogativa regia, in relazione alla quale l'interesse del potere monarchico alla censura si intrecciava con quello dei librai a un profittevole monopolio. Il carattere territoriale della concessione, peraltro, faceva sì che l'enclave papale di Avignone fosse il luogo d'origine di numerose ristampe di testi francesi protetti da privilegio.
La complicata materia fu regolata dai sei decreti del 30 agosto 1777. Nel preambolo al V decreto, il privilegio è definito come una «grâce fondée en justice». Esso, cioè, è frutto di una graziosa concessiona da parte del sovrano; questa concessione, però, si fonda sull'equità: all'autore si riconosce un privilegio perpetuo e trasmissibile in eredità come remunerazione per il suo lavoro, mentre il privilegio trasferito dall'autore al libraio non può superare la durata della sua vita. Dopo la morte dell'autore, qualora questi abbia ceduto il suo privilegio a un libraio, l'opera ritorna nel dominio pubblico.
La normativa di Luigi XVI, pur senza intaccare la prerogativa regia, riconosceva il ruolo dell'autore al punto da concedergli un privilegio perpetuo, mentre limitava i privilegi dei librai, nel quadro di una complessa operazione politica nella quale il monarca tentava di legittimarsi come regolatore secondo equità e come garante del dominio pubblico.
I decreti di Luigi XVI hanno come sfondo un ampio dibattito sul diritto d'autore a cui parteciparono illuministi di primo piano. Denis Diderot, in particolare, aveva scritto - su commissione della comunità dei librai parigini - una Lettre sur le commerce de la librairie (1764), nella quale argomentava a favore della perpetuità del privilegio librario.
Diderot, allo scopo di emancipare gli scrittori dal mecenatismo, costruisce il diritto d'autore come fondato su una sua proprietà originaria, indistinguibile dalla proprietà di un oggetto materiale e da trattarsi, dunque, alla stessa stregua di qualla. L'autore produce la propria opera tramite una elaborazione di idee, esperienze e sentimenti della sua propria anima: questo è un caso di applicabilità perfetta della fondazione lockeana della proprietà privata sul lavoro personale. L'opera dell'ingegno è infatti una produzione irrepetibile, che riposa interamente sulla creatività dell'individuo.
E' inoltre bene che l'edizione avvenga in un regime di monopolio a causa degli alti costi della stampa: la concorrenza fra librai danneggerebbe la qualità delle edizioni.
Diderot, in altre parole, mira a trasformare la proprietà letteraria in un diritto soggettivo, indipendente dalla concessione regia, allo scopo di rendere l'autore economicamente autonomo. In questa prospettiva, in un mondo in cui la stampa è una intrapresa costosa e rischiosa, sente gli editori come suoi naturali alleati e fa proprie le loro rivendicazioni.
Alle tesi di Diderot si oppose un altro illuminista di primo piano, Condorcet, nei suoi Fragments sur la liberté de la presse (1776). Per Condorcet un'opera, come vettore di idee, non può essere trattata come privata, una volta che è stata resa pubblica, in quanto più uomini simultaneamente possono usare le stesse idee senza privare di nulla l'autore. Per quanto la capacità di conoscere sia individuale, le idee possono essere elaborate fino a formare una conoscenza oggettiva solo diventando comuni.
Di genuinamente individuale c'è solo la formulazione linguistica, sulla quale può essere invocata una proprietà letteraria che, però, è soltanto provvisoria. Anche il linguaggio, infatti, è frutto dell'elaborazione collettiva umana: Condorcet pensava addirittura che fosse possibile una lingua universale come quella della matematica, in grado di trasmettere perfettamente il sapere, che relegasse le forme di espressione soggettive al solo ambito della letteratura.
Allo scopo di promuovere una società universale della conoscenza, Condorcet immagina una repubblica della scienza autonoma, cui il potere politico può contribuire non difendendo monopoli, ma tutelando legalmente la libertà di stampa e garantendo il pubblico dominio.
La rivoluzione francese, eliminando tutte le istituzioni monarchiche, aveva gettato il mercato editoriale in uno stato di completa anarchia. Sieyés e Condorcet, nel 1790, proposero una legislazione di compromesso, che riconosceva un diritto d'autore limitato, tentando di contemperare gli interessi privati degli editori e degli autori e il rischiaramento pubblico. Questa proposta cadde sotto gli attacchi congiunti dei fautori di un privilegio perpetuo e dei libertari culturali, che si rifacevano agli stessi Fragments di Condorcet.
Nel 1791 fu soppressa la corporazione degli editori e degli stampatori, che era stata la sostenitrice più accanita della proprietà intellettuale. Questo permise agli autori di far sentire la propria voce senza rischiare di essere scambiati per sostenitori dei vecchi privilegi. In particolare, gli autori della Comédie française, che durante l'Ancient régime non potevano essere titolari del privilegio in quanto questo spettava esclusivamente ai direttori teatrali, rivendicarono il diritto alla titolarità del proprio lavoro.
La legge Le Chapelier del 13 gennaio 1791 abolì i privilegi sulle opere teatrali e riconobbe i diritti degli autori per un periodo limitato alla durata della loro vita aumentata di cinque anni, dopo di che i testi sarebbero ricaduti nel pubblico dominio. Gli autori, cioé, non erano riconosciuti come proprietari delle loro opere, alla Diderot, ma come funzionari al servizio di un patrimonio culturale pubblico cui si cercava di dare remunerazione. Come scriveva Le Chapelier:
La più sacra, la più legittima, la più inattaccabile, e, se posso aggiungere, la più personale di ogni proprietà, è l'opera, frutto del pensiero d'uno scrittore; tuttavia è una proprietà di un genere completamente diverso dalle altre proprietà. Quando un autore ha consegnato la sua opera al pubblico, quando quest'opera è nelle mani di tutti, tutte gli uomini colti la conoscano, si sono impadroniti delle bellezze che contiene e hanno affidato alla loro memoria le sue battute più riuscite, sembra che in quel momento lo scrittore abbia associato il pubblico alla sua proprietà o addirittura gliela abbioa trasmessa nella sua interezza... 17
La successiva legge Lakanal del 19 luglio 1793 applicò questi principi su un piano generale: agli autori di «tutte le opere dello spirito e del genio appartenenti alle belle arti», per ricompensare la loro attività al servizio del rischiaramento pubblico, fu garantito un diritto esclusivo per tutta la durata della loro vita più dieci anni.
Anche in Francia, il dibattito sulla proprietà intellettuale si concluse, dunque, con un compromesso: si attribuì - come avrebbe voluto Diderot - un monopolio all'autore, ma di durata limitata, al di fuori del quale il riconoscimento del pubblico dominio - come avrebbe voluto Condorcet - sanciva il carattere essenzialmente comune del mondo delle idee.
[ 16 ] Si vedano per esempio i diritti morali d'autore riconosciuti da una normativa tipicamente continentale come quella italiana in G. Prosperi, I diritti morali dell'autore.
Diritto d'autore e comunicazione del sapere
by Maria Chiara Pievatolo is licensed under a Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International License.
Based on a work at http://btfp.sp.unipi.it/dida/fpa